Abbiamo finalmente davanti a noi un testo genuino della «lettera di Dio», e siamo anche ben preparati a interpretarlo filologicamente in maniera esatta (con le ipotesi si ottiene tutto facilmente). Ebbene, bastano queste due condizioni a intendere bene quella lettera? Portiamo un confronto storico. Fino a qualche decina d’anni addietro erano famosi a Roma i «ciceroni», che guidavano i pellegrini nelle visite ai monumenti. Di solito erano romani autentici, che conoscevano la città a menadito; ma anche, di solito, era gente che in fatto di storia andava molto alla buona, e che nell’illustrazione dei monumenti tirava giù strafalcioni da far tremare il monumento stesso. Guide di pellegrini e perfetti conoscitori della loro città materiale, erano alla loro volta pellegrini anch’essi nella loro città storica. La ragione, anni fa, fu spiattellata ad uno di essi da un pellegrino colto, il quale, inorridito dagli spropositi uditi, gli ripeté sottovoce (per misura prudenziale) le parole dei discepoli di Emmaus: Peregrinus es... et non cognovisti quae facta sunt? Altrettanto può avvenire a qualsiasi documento storico scritto. Anche se io ho il testo genuino del documento, come i «ciceroni» stavano nella Roma genuina: anche se io so interpretarlo filologicamente bene, come i «ciceroni» si aggiravano con sicurezza fra tutti i ruderi e in tutte le vie; posso tuttavia non capir niente del documento, se rispetto ad esso ho la preparazione storica che avevano i «ciceroni» rispetto a Roma. Le vicende della lettera ad Anthropos ce ne hanno mostrato qualche saggio. Tuttavia prima di applicare questo canone al libro propriamente divino, la Bibbia, portiamo ancora come esempio il libro chiamato impropriamente divino, la Commedia di Dante. È facile oggi averne il testo genuino: non è neppur difficile farne un’interpretazione filologica sicura, salvo in qualche punto; ma, ciò nonostante, quante difficoltà ed incertezze non incontra la sua esegesi? Neanche a dirlo, sono per la massima parte difficoltà ed incertezze storiche. Certo, si potrà leggere la Divina Commedia anche disinteressandosi per principio di quasi tutta la parte storica, e quindi saltando con disinvoltura quelle difficoltà. Ma questo non è farne l’esegesi. Tutt’al più sarà il modo di legger Dante ai ragazzi del ginnasio inferiore: Sentite, ragazzi, che verso scorrevole? Guardate che vivacità di figure! Che armonia! Il conte Ugolino? Vi basti sapere che mangiò i proprii figli nella torre di Pisa. Chi era Pier della Vigna? Era «quello» che sbatté la testa contro i muri della prigione. - Chi credesse di presentare degnamente in questo modo Dante, farebbe come chi per darvi un’idea adeguata dello spettacolo delle Alpi vi mettesse sotto gli occhi un edelweiss: voi, naturalmente, lo prendereste e lo buttereste dalla finestra, intendiamoci, il fiore. Per valutare Dante bisogna conoscere l’anima dei personaggi, dei fatti, delle situazioni, da lui presentati; quando questa conoscenza manca per difetto di documenti, comincia l’esegesi dubbia, o anche arbitraria e fantastica. Sono i casi in cui volentieri si fa passare la Commedia per qualcosa come un libro magico: il caso del «veltro» insegni. Né basta la conoscenza dei fatti; è necessaria anche quella del fondo culturale, della mentalità diffusa, delle costumanze, ecc., sino alle cose più umili, sino al giuoco della «zara», sino al «cappello». Se non conoscete il sistema tolemaico, nelle sue varie diversificazioni medievali, non capirete certo nulla del sistema astronomico dantesco; se vi sono ignote le idee geografiche e cosmologiche del Medioevo, vi sembrerà assurda l’ubicazione del Paradiso Terrestre dantesco; se non avete mai letto la Visio Pauli, seguiterete a dire, come fanno i commentatori ancora oggi, che il verso Andovvi poi lo Vas d’elezione allude al rapimento di San Paolo in paradiso (II Corinti 12,4), mentre si raccoglie già da Francesco da Buri che allude a quel viaggio dell’apostolo all’inferno, di cui parla la Visio. In conclusione, senza una preparazione storica nel più ampio senso della parola non si può fare l’esegesi di Dante; del resto, anche questi sono canoni notissimi e indiscussi presso i dantisti. Altrettanto noti e indiscussi sono questi stessi canoni presso gli studiosi cattolici della Bibbia; ma ciò non vuol dire che troppo spesso in pratica non siano trascurati da chi legge, tratta e cita la «lettera di Dio». Presso studiosi acattolici si eccede comunemente in senso inverso: si adducono argomenti storici che non esistono, si fabbricano delle costruzioni romanzesche basandole su punte di spille. È il sistema che, mentre nella lettera ad An- thropos ha trovato il cardinale Garibaldi e i due Pii IX, in tanti commenti tedeschi e inglesi alla Bibbia è riuscito ad estrarre il vero nucleo storico, alterabile a piacere, dalle figure di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè: ha creato il bazar di identificazioni del «figlio di Tabeel» e del «servo di Jahvè»: ha fatto ammazzare Giovanni l’apostolo da Erode: ha specialmente saputo assegnare proposizioni bibliche di quattro parole a quattro autori differenti, creando quell’indefinibile miracolo che è la «Bibbia arcobaleno» americano-tedesca. Volendo fare troppa storia, si fa della storia fittizia, cioè dell’anti-storia. Dall’altra parte, gli orecchianti della Bibbia seguono ancora i metodi degli scomparsi «ciceroni» romani, e trattano il libro divino come se fosse avulso dalla storia o parlasse solo di cose avvenute su nell’empireo fra spiriti celesti. Tutt’al più conoscono vagamente, per sentito dire, tre o quattro personaggi o avvenimenti, ognuno caratterizzato con un epiteto stereotipato, e più in là non vanno. - David è il «pio» re, Fautore dei Salmi: in che secolo poi egli sia vissuto, in che circostanze storiche, quale sia la sua importanza politica, religiosa, ecc., son tutte cose che non servono. - Della distruzione di Gerusalemme fatta da Nabuchodonosor qualche volta vagamente si parla, come del castigo di Dio per eccellenza: la distruzione di Samaria, per molti rispetti assai più grave, ha contro di sé la congiura del silenzio, prodotto verosimilmente da ignoranza. - Nabuchodonosor è l’«empio» per eccellenza, è la causa di tutte le sventure del popolo eletto, a un dipresso come per i «ciceroni» romani Nerone aveva ammazzato tutti i cristiani, compresi quelli del Colosseo: mentre - se vogliamo credere a Geremia, a Ezechiele e ai monumenti profani - Nabuchodonosor fu uno strumento salutare in mano di Dio, si mostrò eccezionalmente longanime con i caparbi Giudei, e non fu affatto un empio, ma al contrario animato da un singolare zelo per la sua religione.- Se poi Nabuchodonosor sia veramente stato re dei Caldei in Babilonia e quando vi abbia regnato, si dirà che è questione di erudizione «profana» che non riguarda la santità della Bibbia; ma, con tali principii, voi dovrete lasciare agli eruditi «profani» il compito di spiegare come mai, in Giuditta I,5, Nabuchodonosor sia chiamato re degli Assiri in Ninive; e quegli eruditi vi risponderanno asciuttamente che ai tempi di Nabuchodonosor l’impero degli Assiri non esisteva più, e Ninive era distrutta, e quindi che la Bibbia nel citato passo di Giuditta sbaglia. E voi, che replicherete a quest’ultima conclusione? C’è da temere che non sarete in grado di far altro che addurre i decreti della Chiesa circa l’infallibilità della Bibbia: ottimo metodo teologico, pessimo metodo storico. ...
ATTENZIONE: L’Autore - Abate Giuseppe Ricciotti - non sta affatto incentivando il metodo storico-critico tipico dei modernisti. Tutto sarà chiarissimo leggendo, settimana dopo settimana, le pagine del suo libro, qui riportate per episodi. Abbiamo ritenuto opportuno precisarlo! (ndR)
«NON COGNOVISTI QUÆ FACTA SUNT», parte 1. Da Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. SS n° 13, p. 5