Come potrò infatti apprezzare nel suo giusto valore l’efficacia esplicata nel grande disegno divino da un dato personaggio, se non mi metto sul suo terreno storico? Dire, per esempio, che Mosè era un sant’uomo, è troppo poco: lo stesso si può dire di S. Felice da Cantalice, che è tutt’altro da Mosè e non c’entra affatto con la rivelazione divina. Raccontare che Geremia fu gettato in prigione in una fangosa cisterna è raccontare un episodio a “sensation”, ma non basta certo a valutare degnamente l’importanza della missione affidatagli da Dio, né a capire i suoi scritti. Mettetemi invece le figure di Mosè e di Geremia sullo sfondo storico dei loro tempi, narratemi quando vissero, in quali circostanze, che cosa fecero, contro quali ostacoli, con quali obiettivi, ecc., e allora potrò, non solo ammirare i disegni di Dio su di loro e su tutta l’umanità, ma anche comprendere ciò che la Bibbia dice di loro. Né la conoscenza storica di un dato popolo si deve limitare ai soli avvenimenti: è necessario invece che si estenda alle sue costumanze, alle sue idee morali, scientifiche, ecc., a tutto ciò che forma, insomma, il mondo culturale e la civiltà di esso; altrimenti non ne comprenderò né gli avvenimenti né gli scritti. Quanto dicemmo per il poema di Dante, vale per il poema di Dio. Leggo, ad esempio, il Salmo 23 (ebr. 24), 2, ove il poeta dice dell’orbe che Dio super maria fundavit eum, et super flumina praeparavit eum; come potrò comprendere bene questo passo, se non mi è noto che gli Ebrei immaginavano la terra come un’ immensa piattaforma circondata tutt’ intorno dall’ Oceano intransmeabile (come pensa anche Omero) e lambita dai fiumi primordiali? - M’imbatto nel racconto di Giacobbe che, vicino a morire in Egitto, chiama suo figlio Giuseppe e gli dice: Pone manum tuam sub femore meo: et facies mihi misericordiam et veritatem, ut non sepelias me in Aegypto (Gen., 47, 29); e queste parole mi resteranno sibilline, se non so che gli antichi Semiti s’impegnavano con giuramento verso un’altra persona toccandogli la coscia: sapendo invece ciò, comprendo che Giacobbe domanda a suo figlio un normale giuramento per non esser sepolto in Egitto. E tutti quei numerosi tratti, che occupano talvolta intere pagine e interi libri, in cui la Bibbia usa una terminologia metaforica, ovvero narra fatti che hanno un significato simbolico, come si potranno interpretare giustamente senza la conoscenza del loro sfondo storico? So bene che una interpretazione comechessia è presto trovata; ma bisognerà vedere se proprio quello è il significato della «lettera di Dio», o non piuttosto uno appiccicatole arbitrariamente dall’ uomo. Quando un commentatore di Dante mi viene a dire che il «veltro» è Lutero o Savonarola, Garibaldi o Pio IX, Lenin o Mussolini, o tutto quello che volete, io posso ammirare l’esuberanza della sua fantasia, ma non certo il suo acume critico; c’è qui una sostituzione di persona: io voglio sentir parlare Dante, e invece mi salta fuori il commentatore e parla lui. Nel caso nostro, come abbiamo detto, noi vogliamo sentir parlare Dio e non l’uomo, anche se costui dice cose buone e degne. Io potrò accettare queste cose buone e degne, come dettemi dall’ uomo; ma quando egli vorrà presentarmele, senza una precisa dimostrazione, come dette da Dio, allora gli risponderò col nostro solito maestro Girolamo: Quasi grande sit, et non vitiosissimum docendi genus, depravare sententias, et ad voluntatem suam Scripturam trahere repugnantem (ad Paulin., epist. 53). Parole gravi, sia per se stesse sia per la bocca che le pronuncia: vitiosissimum docendi genus! E badate che non dice mica ad voluntatem suam o pravam, o haereticam, o qualcosa di simile; no, gli basta riscontrare repugnantem la Scrittura. Tanto è vero che immediatamente sopra ha parlato di coloro che quidquid dixerint, hoc legem Dei putant; nec scire dignantur quid prophetae quid apostoli senserint, sed ad sensum suum incongrua aptant testimonia. Il profeta Osea sposa Gomer, che era una meretrice e ne ottiene dei figli: sissignore, era una meretrice, mentre Osea era un sant’uomo; e poi, come se ciò non bastasse, egli sposa anche un’adultera (così almeno S. Girolamo, e con lui molti moderni, interpretano Osea, 3, 1). Si possono spiegare seriamente e adeguatamente tali fatti storici, se non si mettono sul loro fondo storico? L’interpretazione comechessia dirà, supponiamo, che Osea è il simbolo dell’anima che si distacca dall’amore di Dio per piegare a quello della creatura (la meretrice); mentre non è vero affatto: giacché Osea contrae quei matrimonii per comando stesso di Dio, ed in essi egli rappresenta Dio stesso, come le donne rappresentano l’infedele nazione d’Israele. Isaia, per tre anni, va nudo e scalzo: così dice la Bibbia (Isaia, 20, 3). Chi non studia il contesto storico e non penetra nel significato storico di questa azione simbolica, si rifugerà nell’interpretazione comechessia, dicendo che Isaia - uomo santo - rappresenta le persone sante, spogliate e nude di ogni affetto terreno. E invece, Dio stesso ci dice che egli rappresentava una corrotta nazione pagana, l’Egitto. E il caldaio bollente di Geremia che rappresenta? E le sue due ceste di fichi? E il giacere che fa Ezechiele per 40 giorni sul fianco sinistro e 40 giorni sul destro? E la galletta d’orzo cotta con lo sterco, da lui mangiata in quel tempo? E tutte le altre azioni simboliche minutamente compiute e descritte dagli altri profeti? E tutto intero l’Apocalisse? Coloro che scire dignantur quid prophetae, quid apostoli senserint, troveranno molto difficile e delicato spiegare fondatamente tutti questi simboli, e si avvicineranno ad essi con lungo e riverente amore; coloro invece che preferiscono ad voluntatem suam Scripturam trahere repugnantem, trovano comodissimi mezzi per spiegare ogni cosa: l’anima, le passioni, il castigo divino, il mondo, il demonio, la carne. Tutte cose vere, ma che Dio di fatto, in quei passi della Sua lettera all’uomo, non dice; mentre - ripetiamolo ancora una volta - noi vogliamo qui sapere quel che dice Dio, non l’uomo, vogliamo leggere la Sua lettera, non gli altrui commenti anche se piissimi. Alcuni anni fa uscì un commento italiano all’Apocalisse, in cui l’autore - persona affatto ignara di studii biblici - trovava descritta minutamente la storia, passata presente e futura, della Chiesa: vecchio sistema, che rifiorisce sempre grazie all’imperizia dei commentatori. Era in sostanza un commento consolante, giacché dimostrava che la fine del mondo è ancora piuttosto lontana: infatti, al cap. 6 dell’Apocalisse - su 22 che ne conta - l’autore ritrovava gli avvenimenti del secolo XIX e del 1870. Mi è rimasto impresso come spiegava il passo stellae de caelo ceciderunt super terram, di 6, 13: le stelle erano i cattolici che avevano defezionato lungo quel secolo; e ne era tanto sicuro che citava anche i loro nomi, Lamennais, Döllinger, Cristoforo Bonavino (Ausonio Franchi), ecc. Devo però confessare che a me quella lettura fece del bene; con la sua fantastica arbitrarietà mi decisi fin d’allora, che ero un ragazzo, a schierarmi con l’opinione di S. Girolamo: vitiosissimum docendi genus. La Bibbia dunque, poiché è un libro storico, deve essere interpretata, oltreché in maniera filologicamente esatta, anche in maniera storicamente precisa: salvo che chi la legge sostenga, secondo le note dottrine respinte dalla Chiesa, che i fatti narrati dalla Bibbia non sono «storici», bensì leggendarii o mitici o favolosi, o anche magici. Quando questa interpretazione storicamente precisa manca, l’esperienza insegna che se ne adottano altre arbitrarie e fantastiche, e si finisce con l’attribuire alla Bibbia quella specie di carattere magico, che già sopra deprecammo: carattere che si tenterà di giustificare con l’origine divina del libro, ma in realtà è provocato soltanto dalla ignorantia historiae del lettore. Ce lo ha detto il Doctor maximus degli studii biblici: Multi labuntur errore propter ignorantiam historiae. Dice multi, non pochi. Parla dei suoi tempi, è vero: quanto ai nostri tempi, per giudicare, bisognerebbe fare qualche computo; bisognerebbe ad es. contare quanti dei lettori e citatori della Bibbia sanno in quale anno della fondazione di Roma, ab Urbe condita, cade l’anno convenzionale della nascita di Gesù. Stando ai programmi, i bambini del primo anno di ginnasio devono saperlo.