Bibbia e non Bibbia, ab. G. Ricciotti, Morcelliana, Brescia, 1935. «IN ALTIS HABITAT», parte 3. (Prosegue dal n° 17, anno I, del 17 Luglio 2016) Fu già da altri più volte segnalata la violenza che si fa al passo, Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus (Salmo 63 [ebr. 64], 7-8), allorché viene applicato al Cuore di Gesù: tuttavia, ancora nel giugno 1931, si poteva ascoltare in una chiesa di Roma una predica tutta imbastita sull’applicazione di questo passo al Cuore di Gesù. Un’accomodazione? Il non sospetto Cornely già nel 1894 (Historica et critica Introductio in U. T. libros sacros, I, Parisiis 1894, p. 571, nota 6) asseriva che questo caso d’accomodazione era vix non blasphemum; io, non avendo 1’autorità del Cornely, mi limito a segnalarlo come un semplice caso della tanto diffusa ignoranza in materie bibliche. Quel passo, infatti, non solo è assai incerto nel testo ebraico; non solo è anche peggiorato nel testo latino della Vulgata; ma se c’è in quelle parole alcunché di sicuro, è che quel cor altum - o meglio cuore cupo, come dice l’ebraico - si riferisce al cuore dell’uomo perfido che trama iniquità. Con tutto ciò si ha la disinvoltura di applicarlo al Cuore di Gesù. Via, anche con le migliori intenzioni, è intollerabile! Come nel caso precedente non basta la parola cor per far pensare al Cuore di Gesù: così, per far pensare alle bellezze spirituali latenti nel segreto di un’anima, non basta quanto dice il noto passo: Oculi tui columbarum, absque eo quod intrinsecus latet (Cantico dei Cant., 4, 1). Quell’intrinsecus latet è fallace, anzi è esplosivo come la dinamite. Prima di tutto è una traduzione perifrastica, giacché l’ebraico dice testualmente: Gli occhi tuoi [sono di] colombe, di tramezzo alla tua «sammah», e quest’ultima parola ebraica si potrà tradurre o velo, con i filologi moderni, oppure rìccioli, con gli antichi rabbini. È infatti lo Sposo del Cantico che parla alla Sposa. Se poi S. Girolamo ha tradotto con quella perifrasi, lo ha fitto molto probabilmente a scopo di pudico eufemismo; si può infatti leggere, nel suo commento a Isaia 47, 2, ciò che a parer suo quella parola significasse e che io non trovo opportuno riferire qui. Il parere di S. Girolamo è filologicamente poco fondato, quantunque non del tutto impossibile: comunque sia, significhi quella parola velo, o rìccioli, o quel che S. Girolamo [riteneva opportuno], ognuno vede da sé quanto sia disdicevole applicare questo passo a latenti bellezze spirituali. Ci si dirà che queste notizie sono troppo peregrine e dotte, e che non tutti sono obbligati a conoscerle. La risposta è semplicissima. Che siano peregrine può darsi; ma allora, se voi non le conoscete, perché citate la Bibbia? Non abbiamo visto sopra che la Bibbia - secondo che insegnano concordemente la Chiesa, i Padri e la ragione umana - è difficile, e può diventare un tranello per chi la consulti senza un’adeguata preparazione? Se non avete questa preparazione, lasciate da parte la Bibbia, per carità; citate qualcosa di più facile, l’Imitazione di Cristo o che so io, ma non pigliate alla leggera la «lettera di Dio». Lasciate ai vecchi [eretici, ndR] protestanti ortodossi il principio che la Bibbia sia facile e accessibile e necessaria a tutti; la Chiesa, come pure ricordammo, ha insegnato sempre il contrario, e voi da buon cattolico attenetevi agli insegnamenti di essa. Del resto, per evitare quelle accomodazioni che sopra abbiamo definite come goffe dabbenaggini, non è sempre necessario possedere notizie peregrine e dotte: talvolta basta un pochino, poco poco, d’attenzione, quella che è più che implicita per non prendere alla leggera la «lettera di Dio». Cito a parola da un autore ascetico recentissimo, stampato in questi ultimi anni, nella parte ove tratta del giudizio finale: Ma sta scritto ancora che Iddio rivelerà chiaramente le nostre colpe non pure a noi, ma eziandio a tutte le genti: «Revelabo pudenda tua in facie tua, et ostendam gentibus nu- ditatem tuam» (Nahum 3, 5)... con estrema confusione nostra il mondo tutto leggerà nelle nostre coscienze le inosservanze, i mancamenti nostri. E poco appresso ripete il passo di Nahum. - Ora, non è vero affatto che sta scritto quel pensiero; nella «lettera di Dio» sta scritto tutt’altro concetto, se non ci fermiamo alle nude parole. Si dirà: è una «accomodazione». Ma quanto sia disdicevole e indecorosa un’accomodazione di tal genere, bastavano già a mostrarlo la seconda e la penultima parola del passo citato, sol che si fossero capite; se poi l’autore si fosse dato la pena di leggere il versetto precedente, avrebbe visto che il profeta parla di una meretrice vezzosa, dalle molte fornicazioni, la quale simboleggia Ninive. In tali circostanze, era decoroso fare quell’accomodazione? E a che prò, se non «dimostra» proprio nulla? Un’ultima parola sull’impiego dell’accomodazione a scopo catechetico e apologetico. Abbiamo visto sopra che le citazioni bibliche, addotte in senso accomodatazio a provare alcunché, non godono a tal riguardo di nessuna autorità divina (Patrizi). Questo canone è pacifico; è anche praticato dai seri teologi, che oggi, se vogliono dimostrare una data verità, citano la Bibbia, in senso letterale, non accomodatizio. Del resto i Padri stessi si sono attenuti a questo canone. Quando S. Bernardo parla come oratore parenetico, abbonda straordinariamente in accomodazioni; ma quando discute teologicamente contro Abelardo o contro Gilberto Porrettano, raccoglie le sue vele ed enuncia aforismi come questo: Seria sunt haec quae fidem tangunt, neque admittunt ludendi licentiam illam, quam minime respuit fide bene fundata devotio aut etiam eruditio liberalis. [Questo passo è citato dal Frassen, Disquisitiones biblicae, I, Lucae 1769, p. 403; il quale tuttavia, mentre per altre citazioni adduce sempre in margine la fonte da cui attinge, per questa citazione stranamente non offre alcun rimando: e lo stesso avviene, sempre per questa citazione, in due altre edizioni dello stesso Frassen che ho potuto riscontrare. Fra le opere edite di S. Bernardo, né a me né ad amici più competenti di me, è stato possibile rinvenire questo passo. La citazione quindi è sulla responsabilità del Frassen]. Lo stesso fa S. Agostino; se egli parla come pastore d’anime, accomoda passi biblici in quantità, e noi ne vedemmo già qualche saggio: ma nella polemica contro i Donatisti segue un metodo ben diverso, e li piglia allegramente in giro perché citavano il passo, Indica mihi ubi pascas, ubi cubes in meridie (Cantico dei Cant., I, 6 [7]) per dimostrare che soltanto la loro era la vera Chiesa di Cristo: infatti in meridie avrebbe designato l’Africa donatista, e ivi la Sposa, cioè la Chiesa, cercava Cristo (De unitate Ecclesiae, XXIV, 69). Come S. Agostino respinge questa accomodazione arbitrariamente eretica, così pure si guarda dal contrapporne altre gratuitamente cattoliche, che i Donatisti avrebbero respinte. Oggi, chi tratta di catechesi o di certe parti dell’apologetica, fa in sostanza della teologia: in tono minore, di tipo divulgativo e popolare, ma autentica teologia. Quindi deve «dimostrare»: e quindi deve citare in senso letterale. Quest’ultima conseguenza è inevitabile. Il suo tono divulgativo gli consentirà talvolta, per chiarezza e anche eleganza, di fare delle accomodazioni: e questi saranno, tutt’al più, piccoli colpi della sua spada dati in aria per maestria di scherma; ma quando egli vuol combattere veramente, non batta l’aria, batta il nemico: non segua il senso accomodatizio, segua quello letterale. Ce lo dice un già citato autore: Licet etiam concionatoribus uti accomodatio- nibus ad veritates morales efficacius inculcandas; argumenta tamen desumant e sensu litterali (H. Höpfl, Tractatus de inspir., p. 142). A leggere invece certi autori, anche quando pretendono «dimostrare» apologeticamente, si direbbe che non fanno altro che batter l’aria; non si vede, a fil di logica, che cosa conchiudano. ...