Somma Teologica, Seconda parte della seconda parte. Dalla Questione 64. • Articolo 5. (...) Il suicidio è assolutamente illecito per tre motivi. Primo, perché per natura ogni essere ama se stesso; e ciò implica la tendenza innata a conservare se stessi e a resistere per quanto è possibile a quanto potrebbe distruggerci. Perciò l’uccisione di se stessi è contro l’inclinazione naturale, e contro la carità con la quale uno deve amare se stesso. E quindi il suicidio è sempre peccato mortale, essendo incompatibile con la legge naturale e con la carità. Secondo, perché la parte è essenzialmente qualche cosa del tutto. Ora, ciascun uomo è parte della società; e quindi è essenzialmente della collettività. Perciò uccidendosi fa un torto alla società, come insegna il Filosofo. Terzo, la vita è un dono divino, che rimane in potere di colui il quale «fa vivere e fa morire». Perciò chi priva se stesso della vita pecca contro Dio: come chi uccide uno schiavo pecca contro il suo padrone; e come commette peccato chi si arroga il diritto di giudicare cose che non lo riguardano. Infatti a Dio soltanto appartiene il giudizio di vita e di morte, secondo le parole della Scrittura: «Sono io a far morire e far vivere». L’omicidio è peccato non solo perché contrario alla giustizia, ma anche perché contrario alla carità che uno deve a se stesso. E da questo lato il suicidio è un peccato anche verso se stessi. Invece in rapporto alla società e a Dio esso ha natura di peccato anche perché è contrario alla giustizia. Chi detiene i pubblici poteri ha la facoltà di uccidere i malfattori, perché ha il compito di giudicarli. Ma nessuno è giudice di se stesso. Ecco perché chi comanda non può uccidere se stesso per nessun peccato. Tuttavia egli ha la facoltà di sottoporsi al giudizio di altri. L’uomo viene costituito padrone di sé dal libero arbitrio. Egli quindi può disporre di se stesso per le cose che riguardano la vita presente regolate dal libero arbitrio. Ma il passaggio da questa vita a un’altra più felice non dipende dal libero arbitrio dell’uomo, bensì dall’intervento di Dio. Perciò all’uomo non è lecito uccidere se stesso, per passare a una vita più felice. E neppure gli è lecito, per sfuggire qualsiasi miseria della vita terrena. Poiché, a detta del Filosofo, la morte «è l’ultimo e il più tremendo» tra i mali della vita presente; cosicché darsi la morte per sfuggire le altre miserie di questa vita, equivale ad affrontare un male più grave per evitarne uno minore. Parimenti non è lecito suicidarsi per un peccato commesso. Sia perché in tal modo uno danneggia se stesso in maniera gravissima, privandosi del tempo necessario per far penitenza. E sia anche perché l’uccisione dei malfattori è rimessa al giudizio dei pubblici poteri. Così non è lecito uccidersi a una donna per non essere violentata. Poiché essa non deve commettere il delitto più grave verso se stessa, qual è appunto il suicidio, per evitare il delitto minore di un altro (infatti una donna violentata, quando manca il consenso, non commette peccato: perché come disse san Lucia, «il corpo non rimane insozzato, se non per il consenso dell’anima»). Si sa, infatti, che la fornicazione, o l’adulterio sono peccati meno gravi dell’omicidio: specialmente poi del suicidio, che è gravissimo, poiché così uno nuoce a se stesso, che è tenuto ad amare più di ogni altro. Inoltre è il peccato più pericoloso; perché non lascia il tempo per l’espiazione. Finalmente a nessuno è lecito uccidere se stesso per paura di acconsentire al peccato. A detta di san Paolo, infatti, «non si deve fare il male perché ne venga un bene», o per evitare la colpa, specialmente se si tratta di colpe minori e meno sicure. Ora, uno non può esser sicuro che in seguito consentirà al peccato: poiché il Signore in qualsiasi tentazione può liberare un uomo dalla colpa. Come spiega sant’Agostino, «Sansone non si può scusare dall’aver seppellito se stesso assieme ai nemici distruggendo l’edificio, se non per un segreto comodo dello Spirito Santo, il quale faceva miracoli per mezzo suo». E allo stesso modo egli giustifica la condotta di alcune sante donne venerate dalla Chiesa, che durante la persecuzione si uccisero da se stesse. È un atto di coraggio affrontare per la virtù la morte inflitta da altri, per evitare il peccato. Ma il dare la morte a se stessi per evitare delle sofferenze ha una certa parvenza di coraggio, per cui alcuni si sono uccisi così pensando di agire coraggiosamente, e tra questi c’è appunto Razis: ma non si tratta di vero coraggio, bensì di una certa pusillanimità, incapace di affrontare la sofferenza, come nota sia il Filosofo, che sant’Agostino.

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