Si legge nella parabola della zizzania in San Matteo (capitolo 13) che, essendo cresciuta in un campo la zizania insieme col grano, i servi volevano andare ad estirparla: «Vis, imus, et colligimus ea?» (Matth., 13, 28). Ma il padrone rispose: No, lasciatela crescere, e poi si raccoglierà e si manderà al fuoco: «In tempore messis dicam messoribus, colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum» (Matth., 13, 30). Da questa parabola si ricava per una parte la pazienza che il Signore usa coi peccatori; e per l’altra il rigore che usa cogli ostinati.

Dice Sant’Agostino (In Ioan. Evang., tr. XXXIII, n. 8; PL 35, 1651: «Ex utroque igitur homines periclitantur, et sperando et desperando, contrariis rebus, contrariis affectionibus». Cfr. CC 36, 310) che in due modi il demonio inganna gli uomini: «Desperando, et sperando». Dopo che il peccatore ha peccato, lo tenta a disperarsi col terrore della divina giustizia (Forse è una citazione implicita di Blosius L., Paradisus animae fidelis, c. 2, n. 4; Opera, Antverpiae 1632, 5, col. 2: «Diabolus hoc malignitatis dolo fere uti consuevit, ut ei qui peccare statuir, ipsum Dominum clementissimum et misericordissimum esse polliceatur: ubi vero peccato admisso poenitentiam agere voluerit, iam illum implacabilem nimiumque severum esse modis omnibus suadeat. Sed audiendus non est callidus impostor»); ma prima di peccare, (il demonio) tenta l’anima (lo anima) al peccato colla speranza della divina misericordia. Perciò il santo avverte ad ognuno: «Post peccatum spera misericordiam; ante peccatum pertimesce iustitiam» (Il concetto non manca nell’Ipponate: , In Ioan. Evang., tr. XXXIII, n. 7; PL 35, 1650: «Intendant ergo qui amant in Domino mansuetudinem, et timeant veritatem. Etenim dulcis et rectus Dominus (Ps. XXIV, 8). Amas quod dulcis est, time quod rectus est». Cfr. CC 36, 309. Sarnelli G., La via facile, e sicura del paradiso, p. II, cons. 44; I, Napoli 1738, 328, attribuisce il testo a s. Girolamo senza indicarne l’opera: «Dice s. Girolamo: Sperate nella misericordia di Dio per li peccati passati. Ma temete l’ira di Dio per li peccati futuri»). Sì, perché non merita misericordia chi si serve della misericordia di Dio per offenderlo. La misericordia si usa con chi teme Dio, non con chi si avvale di quella per non temerlo. Chi offende la giustizia, dice l’Abulense, può ricorrere alla misericordia, ma chi offende la stessa misericordia, a chi ricorrerà? (Alphonsus Tostado, In Exodum, c. IX, q. 8; c. XXXIII, q. 18; Opera, Venetiis 1596, 58, col. 4; 160, col. 1. Vedi pure: In Matth., c. XVIII, q. 140; 170, col. 1).

Difficilmente si trova peccatore così disperato che voglia proprio dannarsi. I peccatori vogliono peccare, senza perdere la speranza di salvarsi. Peccano e dicono: Dio è di misericordia; farò questo peccato, e poi me lo confesserò. «Bonus est Deus, faciam quod mihi placet», ecco come parlano i peccatori, scrive Sant’Agostino (Tract. 33. in Io. n. 8; PL 35, 1651: «Sperando qui decipitur? Qui dicit: Bonus est Deus, misericors est Deus, faciam quod mihi placet, quod libet». Cfr. CC 36, 310. Cfr. ID., Sermo XX; PL 38, 139-140). Ma oh Dio così ancora dicevano tanti, che ora sono già dannati. Non dire, dice il Signore: Son grandi le misericordie che usa Dio; per quanti peccati farò, con un atto di dolore sarò perdonato. «Et ne dicas: miseratio Domini magna est, multitudinis peccatorum meorum miserebitur» (Eccli. 5, 6). Non dire, dice Dio; e perché? «Misericordia enim, et ira ab illo cito proximant, et in peccatores respicit ira illius» (Ibid.). La misericordia di Dio è infinita, ma gli atti di questa misericordia (che sono le miserazioni) sono finiti. Dio è misericordioso ma è ancora giusto. «Ego sum iustus, et misericors», disse il Signore un giorno a Santa Brigida «peccatores tantum misericordem me existimant» (Revelationes, l. 1, c. 5; Coloniæ Agrippinae 1628, 8, col. 2: «Omnes credunt me, et praedicant misericordem, sed quasi nullus praedicat, nec credit me esse iuste iudicantem. Iniquus enim esset iudex, qui ex misericordia iniquos dimitteret impunitos, ut iniqui iustos eo magis opprimerent. Sed ego sum iustus iudex et misericors».).

I peccatori, scrive San Basilio, vogliono considerare Dio solo per metà: «Bonus est Dominus, sed etiam iustus; nolite Deum ex dimidia parte cogitare» (Regalae fusius tractatae, Proemium, n. 4; PG 31, 898: «Misericors quidem est, sed et iudex... Misericors enim Dominus et iustus. Ne igitur dimidia ex parte Deum cognoscamus neque ipsius benignitas ignaviae nobis occasio sit»). Il sopportare chi si serve della misericordia di Dio per più offenderlo, diceva il P. M. Avila che non sarebbe misericordia, ma mancamento di giustizia. La misericordia sta promessa a chi teme Dio, non già a chi se ne abusa (Lettere spirituali, p. III, lett. 12 ad un suo discepolo predicatore, Roma 1668, trad. B. Nicolucci, 64: «Come perdonerà Iddio a chi l'ha offeso, e se ne ride, e non tiene rimorso nel suo cuore d'aver disprezzato il suo Padre, Dio, e Signore? Non sarebbe questa misericordia, ma un mancamento di giustizia; e cosa molto contra ragione, che a Dio non conviene, le cui opere sono giudizio, peso e misura». Cfr. Juan De Avila, Obras completas, I, Epistolario, III parte, carta 167 a un su discípulo predicador; Madrid 1952, 828: «Cómo perdonará Dios a quie le ha ofendido y se ríe y no tiene pellizco en su corazón de haber despreciado a su Padre, Dios y Señor? No sería esto misericordia, sino falta de justicia, y cosa muy contra razón, cual a Dios no conviene, cuyas obras son juicio, peso y medida»). «Et misericordia eius timentibus eum» (Luca, 1, 50), come cantò la divina Madre.

Agli ostinati sta minacciata la giustizia; e siccome (dice Sant'Agostino) Dio non mente nelle promesse; così non mente ancora nelle minacce: «Qui verus est in promittendo, verus est in minando» (De vera et falsa poenitentia, c. VII, n. 18; PL 40, 1119: «Qui verus est in promittendo, verus est in minando». Questa opera un tempo attribuita a Sant'Agostino appartiene probabilmente ad un autore anonimo del sec. XI; cfr. Glorieux, 29). Guardati, dice San Giovanni Grisostomo, quando il demonio (ma non Dio) ti promette la divina misericordia, affinché pecchi; «Cave ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur» [Hom. 50. ad Pop. Antioch.; Gisolfo P., La guida de’ peccatori, p. I, disc. VI; 1, Napoli 1694, 160: «Osserva con che parole te n’ammonisce San Giovanni Climaco: Cave ne unquam canem illum suscipias, qui misericordiam Dei pollicetur». Cfr. S. Ioan. Climacus, Scala paradisi, gradus VI; PG 88, 795: «Tu vero lugens nequaquam admittas canem illum tartareum, qui Deum benignum et clementem esse suggerit...; hoc enim studet ut luctum et timorem Domini, qui veram parit securitatem abs te excludat». Nella stessa pagina il Gisolfo cita: «Talis est diabolus: omnia arte non ex directo praetendit, ne caveamus (S. Io. Chris. hom. 50 ad pop. Ant.)». Sembra si tratti di una svista di trascrizione da parte di Sant’Alfonso, che ha riferito al Crisostomo ciò che appartiene al Climaco]. Guai, soggiunge Sant’Agostino, a chi spera per peccare: «Sperat, ut peccet; vae a perversa spe» (In Ps. 144; Enarrat. in Ps. CXLIV, n. 11; PL 1877: «Audi et vocem sperantis: Misericordia Domini magna est: quando me convertero, dimittet mihi omnia: quare non facio quidquid volo? Desperat, ut peccet; sperat, ut peccet. Utrumque metuendum est, utrumque periculosum. Vae a desperatione! vae a perversa spe». Cfr. CC 40, 2096.).

Oh quanti ne ha ingannati e fatti perdere, dice il Santo, questa vana speranza (Sermo 154, De Passione Domini et de beato latrone, n. 9; PL 39, 2040: «Immittit diabolus securitatem ut inferat perditionem: neque dinumerari possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit». In Appendice delle opere di Sant’Agostino, ma è di Eusebius Gallicanus, cfr. Clavis, 368). «Dinumerari non possunt, quantos haec inanis spei umbra deceperit». Povero chi s’abusa della pietà di Dio, per più oltraggiarlo! Dice San Bernardo che Lucifero perciò fu così presto castigato da Dio, perché si ribellò sperando di non riceverne castigo [Tractatus de gradibus superbiae, n. 36; PL 182, 962: «Dei bonitatem attendens, dixisti in corde tuo: Non requiret (Ps. X, 13); propter quod, o impie, Deum irritasti». Cfr. Ibid., nn. 31-33]. Il re Manasse fu peccatore, poi si convertì, e Dio lo perdonò; Ammone suo figlio, vedendo il padre così facilmente perdonato, si diede alla mala vita colla speranza del perdono; ma per Ammone non vi fu misericordia. Perciò ancora dice San Giovanni Grisostomo che Giuda si perdé, perché peccò fidato alla benignità di Gesu-Cristo: «Fidit in lenitate magistri» (In Matthaeum homilia 83, n. 2; PG 58, 748: «Confidebat in lenitate magistri: quod maxime illum confundere debuit, et venia omni privare, quod tam mansuetum magistrum prodiderit»).

Insomma Dio, se sopporta, non sopporta sempre. Se fosse che Dio sempre sopportasse, niuno si dannerebbe; ma la sentenza più comune è che la maggior parte anche dei cristiani (parlando degli adulti) si danna: «Lata porta et spatiosa via est, quae ducit ad perditionem, et multi intrant per eam» (Matth. 7, 13). Chi offende Dio con la speranza del perdono, «irrisor est non poenitens», dice Sant’Agostino [Ad fratres in eremo, Sermo 11; PL 40, 1255: «Numquid et qui dissimulat, irrisor est, et non poenitens, qui adhuc agit quod poenitet» (Glorieux, 31)]. Ma all’incontro dice San Paolo che Dio non si fa burlare: «Deus non irridetur» (Galat. 6, 7). Sarebbe un burlare Dio seguire ad offenderlo, sempre che si vuole, e poi andare al Paradiso. «Quae enim seminaverit homo, haec et metet» (Ibid. 8). Chi semina peccati, non ha ragione di sperare altro che castigo ed Inferno. La rete con cui il demonio strascina all’Inferno quasi tutti quei cristiani che si dannano, è quest’inganno, col quale loro dice: Peccate liberamente, perché con tutt’i peccati vi salverete. Ma Dio maledice chi pecca colla speranza del perdono [Sabatino L., Cito cotidiano, med. VII; Montefiascone 1721, 87: «Bisogna… che facciamo opere buone, per ravvivare in noi la speranza della divina misericordia, ed acciocché questa non sia temeraria, e cada sopra di noi la maledizione dello Spirito Santo: Maledictus homo, qui peccat in spe, bisogna risolversi a mutar vita». Vedi anche Mansi, op. cit.; III, 293, col. 2: «Est enim irrefragabilis illa Spiritus Sancti sententia: Maledictus, qui peccat in spe». Forse proviene da San Bernardo, In Ps. Qui habitat, serm. I, n. 2; PL 183, 187: «Sunt… quia sic de misericordia eius sibi ipsis blandiuntur, ut a peccatis suis non emendentur... Contra hos propheta: Maledictus, inquit, qui peccat in spe». Ibid., sermo II, n. 3: «Non desperabo, nec frustra sperabo, quia maledictus qui peccat in spe». Il testo allegato sembra biblico, ma non è. Probabilmente San Bernardo allude a qualcosa di simile che si legge in Geremia: «Maledictus homo, qui confidit in homine» (c. XVII, 5)]. «Maledictus homo qui peccat in spe». La speranza del peccatore dopo il peccato, quando vi è pentimento, è cara a Dio, ma la speranza degli ostinati è l’abominio di Dio: «Et spes illorum abominatio» (Iob. 11. 20). Una tale speranza irrita Dio a castigare, così come irriterebbe il padrone quel servo che l’offendesse, perché il padrone è buono.

• Affetti e preghiere. Ah mio Dio, eccomi io sono stato uno di costoro, che v’ho offeso, perché Voi eravate buono con me. Ah Signore, aspettatemi, non m’abbandonate ancora, ch’io spero colla vostra grazia non irritarvi più ad abbandonarmi. Mi pento, o bontà infinita, di avervi offeso e di aver così maltrattata la vostra pazienza. Vi ringrazio che mi avete aspettato sinora. Da ogg’innanzi non voglio tradirvi più, come ho fatto per lo passato. Voi mi avete tanto sopportato, acciocché mi vedeste un giorno fatto amante della vostra bontà. Ecco che questo giorno è già arrivato, come spero. Io v’amo sopra ogni cosa e stimo più la vostra grazia che tutti i regni del mondo: prima che perderla, son pronto a perdere mille volte la vita. Dio mio, per amore di Gesu-Cristo datemi Voi la santa perseveranza sino alla morte, col vostro santo amore. Non permettete ch’io vi torni a tradire e lasci d’amarvi. Maria, Voi siete la speranza mia; ottenetemi questa perseveranza; e niente più vi dimando. [Tratto da «Apparecchio alla Morte», Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Considerazione XVII, Punto I].

(a cura di CdP)