Negli anni seguenti (siamo nel 1613, ndR) si accese la polemica a proposito dell’accettabilità della dottrina eliocentrica nei riguardi della Fede. Galileo diffondeva nelle discussioni orali e nella corrispondenza epistolare quella teoria; ma, salvo poche eccezioni, trovava concorde «contro di sé l’opinione universale imbibita, si può dire, ab orbe condito».

• Ad alcuni, anche dotti, pareva che il sistema di Tycho-Brahe fosse sufficiente a concordare le nuove scoperte con la tradizione religiosa. Era del resto costume largamente invalso di introdurre nelle discussioni, anche puramente filosofiche, autorità della Scrittura e dei Padri e non si mancò di fare altrettanto anche nella questione eliocentrica, per condannarla come contraria alla Fede ed eretica. Nel dicembre del 1613 il p. Castelli aveva sostenuto in proposito una discussione a Pisa dinanzi alla corte di Toscana e ne aveva dato relazione a Galileo. Questi riprese l’argomento in una lunga lettera al Castelli del 21 dicembre che ebbe pronta divulgazione, mostrando quanto malamente procedessero coloro che tiravano in campo la Scrittura in tali argomenti e come non avessero forza le prove che se ne pretendevano trarre. Con intendimento propriamente teologico scendeva invece in campo a Napoli, sul principio del 1615, il p. Paolo Antonio Foscarini carmelitano (m. nel giugno del 1616) con una lettera in cui, fatte le lodi di Galileo, mostrava assai bene come i passi scritturali e patristici contro la dottrina eliocentrica venissero assai incongruamente allegati ed ammettevano diversa interpretazione. Galileo conobbe questa lettera che fu presto stampata, e prese animo in quello stesso anno ad indirizzare a Maria Cristina, madre del granduca, una lettera veramente mirabile per chiarezza e precisione anche teologica, in cui svolgeva gli argomenti già toccati nella lettera al Castelli ed in altre; e, mostrate le relazioni fra scienza e Fede, confutava a sua volta gli argomenti opposti. Non era stato lui a portare la discussione nel campo scritturale, ma vi era portato dalla necessità di salvaguardare la sua situazione di scienziato e di credente. Questa lettera non fu allora stampata; ma fu diffusa in copie negli ambienti colti della Toscana.

• Il 7 febbraio 1615 il p. Niccolò Lorini, domenicano, aveva inviato da Firenze al card. Paolo Sfondrati, prefetto della Congregazione dell’Indice, copia della lettera del Galilei al p. Castelli, come contenente «molte proposizioni o sospette o temerarie». Poiché la lettera non era stampata, il cardinale la trasmise al card. Mellini segretario del Sant’Uffizio, dove fu tosto presa in esame. Il 20 marzo il p. Tommaso Caccini, pure domenicano, presentò formale denuncia al Sant’Uffizio contro il Galilei, ed un accertamento giudiziario fu perciò iniziato a Firenze. Accortosi che le inimicizie fiorentine non avrebbero mancato di avere ripercussioni a Roma, Galileo decise di recarvisi senz’altro. Egli sperava di tirare dalla sua gli elementi più colti dell’Urbe, e non fece conto dell’avvertimento degli amici che «i peripatetici vi erano potentissimi». Molti degli illustri personaggi che, anche nella Curia, stavano per lui, non vedevano di buon occhio che egli si andasse palesando come convinto sostenitore delle dottrine copernicane; apprezzando i suoi studi e le sue scoperte, non intendevano seguirlo per quella via. Nell’ardore dei suoi convincimenti, Galileo non seppe rendersi conto che difficile cosa era smantellare una costruzione filosofica insegnata come inoppugnabile in tutte le scuole ecclesiastiche e laiche, e che dura cosa doveva apparire a quei maestri rinunciare a dottrine insegnate e tenute per lunghi anni con pieno convincimento. Lasciata Firenze con licenza del granduca, Galileo giungeva a Roma l’11 dicembre 1615, ospite dell’oratore granducale sul Pincio, e si diede subito un gran da fare disputando sulle sue teorie con i personaggi più in vista, persino con il p. Caccini, mettendo anche per scritto le sue argomentazioni e suscitando per conseguenza l’avversione contro di sé dei seguaci dei vecchi sistemi, i quali ne facevano senz’altro questione di ortodossi religiosa. Tutto questo portava alla necessaria conseguenza che conveniva mettere in chiaro i rapporti fra la teoria copernicana e la tradizione cristiana, e portare così ufficialmente la discussione dal campo personale a quello strettamente dottrinale. Fu facile perciò agli avversari di Galileo persuadere il Sant’Uffizio della necessità di una decisione che togliesse ogni incertezza. Il Sant’Uffizio deferì l’esame ad una commissione di undici teologi i quali il 24 febbraio 1616 ai due quesiti loro proposti risposero: 1) «Che il sole sia nel centro del mondo ed immobile di moto locale: è proposizione assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica, perché è espressamente contraria alla Sacra Scrittura»; 2) «Che la terra non sia centro del mondo né immobile, ma secondo se stessa si muova anche di moto diurno: è pure proposizione assurda e falsa in filosofia e, considerata teologicamente, è per lo meno erronea nella Fede». Questa risposta dei teologi fu ratificata l’indomani dai cardinali dell’Inquisizione, presente il Papa; ma non ebbe pubblicazione ufficiale come atto della Sacra Congregazione e restò come regola interna, quale conclusione di uomini dotti e qualificati in materia.

• Quanto a Galileo, che s’era pubblicamente compromesso con le sue discussioni, si volle procedere a suo riguardo in forma benigna, e fu affidato l’incarico al card. Bellarmino di ammonirlo ufficialmente perché desistesse dal propugnare tali teorie, con minaccia, in caso di disubbidienza, di essere carcerato. Il 26 febbraio il cardinale adempì l’incarico alla presenza del commissario del Sant’Uffizio e di alcuni testimoni. Il Galilei promise di ubbidire, impegnandosi a «in nessun modo tenere, insegnare o difendere a voce od in iscritto» dottrine eliocentriche. Da parte sua la Sacra Congregazione dell’Indice il 5 marzo proibì il libro del p. Foscarini con tutti gli altri, non elencati, che sostenessero le medesime dottrine, e decise che nelle nuove stampe dell’opera del Copernico si correggessero alcune poche frasi in modo che apparisse ch’egli aveva proposto il sistema eliocentrico quale semplice ipotesi astronomica. Poiché stava diffondendosi la voce che Galileo era stato obbligato ad un’abiura formale, questi ebbe cura di farsi rilasciare il 26 maggio dal card. Bellarmino un’attestato della comunicazione fattagli riguardo alla teoria copernicana. Così terminava quello che impropriamente fu chiamato il primo processo di Galileo. Questi ai primi di giugno tornò a Firenze, più deciso che mai ad adoperarsi nel migliore e più prudente dei modi al trionfo delle sue dottrine con dimostrare per allora l’inconsistenza delle dottrine avversarie.

• Il 1618 fu l’anno delle comete: ne comparvero tre delle quali l’ultima (novembre - gennaio del 1619), suscitò particolare interesse negli astronomi e nel pubblico; si discuteva soprattutto sulla loro natura: se fossero cioè veri pianeti o pure meteore. Se ne aspettava il giudizio di Galileo, ma egli era malato e non potè fare osservazioni dirette. Fu invece il p. Orazio Grassi, astronomo del Collegio Romano, a stampare una pubblica disputa: De tribus cometis, e Galileo si appigliò all’esame di questa stampa, facendo figurare il suo amico Mario Guiducci in un discorso tenuto all’Accademia fiorentina. Più che a stabilire una dottrina, la lettura era diretta a dimostrare l’insostenibilità delle teorie del Grassi e di altri astronomi, compreso Tycho-Brahe, lamentando che, invece di dirette osservazioni, si ragionasse soltanto sulla base di teorie preconcette. Il p. Grassi replicò sotto la veste di un supposto discepolo in difesa della dottrina del maestro, e con il nome di Lotario Sarsi Sigensano pubblicò a Perugia la Libra astronomica ac philosophica (1619) in confutazione del Guiducci. Gli amici di Galileo furono d’accordo che si dovesse rispondere, e questi nell’ottobre del 1623 pubblicò il Saggiatore, con il quale in 52 capitoli prese in esame tutte le asserzioni del Sarsi. Lavoro polemico, non trattazione propriamente sistematica, in cui l’autore si guarda bene dal presentarsi quale difensore della teoria copernicana, pure insinuandone qua e là la superiorità, distrugge le asserzioni del Sarsi e le sue obbiezioni al discorso del Guiducci e fa osservare che nella ricerca scientifica, più che alle opinioni degli autori, bisogna ricorrere alla osservazione diretta dei fenomeni ed alle matematiche; perciò evita di allegare la Sacra Scrittura come purtroppo si faceva. Il libro, indirizzato al giovane patrizio romano Virginio Cesarini e dedicato al nuovo papa Urbano VIII, ebbe larga diffusione provocando una controreplica da parte del p. Sarsi. Confidando nella benevolenza che Urbano VIII gli aveva dimostrato anni prima, Galileo nell’aprile del 1624 intraprese un nuovo viaggio a Roma, ebbe promessa di benefici ecclesiastici, ma quanto all’accettazione delle sue idee non incontrò che delusioni; sicché, quasi per scusarsi, confutando i suoi avversari, scriveva che non intendeva con questo di sostenere le dottrine copernicane, ma di far conoscere agli eretici che, pur non potendole accettare, non si ignoravano gli argomenti sui quali esse si fondavano.

• Intanto una nuova prova si affacciò all’indagine di Galileo in favore dell’eliocentrismo: quella del flusso e riflusso del mare. Egli non ne voleva sapere dell’influsso degli astri, quasi quale reazione a quello che era uno dei caposaldi dell’astrologia di allora, perciò pensava che sulla causa delle maree nulla avesse a che vedere l’influsso del sole e della luna; secondo lui, esse erano dovute alla rotazione della terra. Volle inquadrare questo nuovo supposto argomento in una trattazione più ampia che prendesse in esame i due massimi sistemi cosmologici: il tolemaico ed il copernicano; vi pose mano nell’autunno del 1624, ma solo nell’ottobre del 1629 vi attese con il proposito di condurre l’opera sino alla fine. Essa è concepita come un dialogo diviso in quattro giornate con tre interlocutori: Filippo Salviati, che vi sostiene le parti copernicane, professando però ripetutamente di ragionare come di una ipotesi scientifica che la Fede non accetta, Gian Francesco Sagredo, che fa la parte dell’ascoltatore, colto ma profano, che ripete gli argomenti chiarendoli; il terzo è Simplicio, il tradizionalista, non ignorante né sciocco, sempre attaccato ai dottori ed ai libri, senza contatto con la natura e con l’esperimento che, non senza tratti caricaturali, difende le idee correnti. Essi disputano sulla natura dei cieli, sul moto diurno della terra e sul moto intorno al sole, sul flusso e riflusso del mare e la caduta dei gravi.

• L’opera si doveva stampare a Roma e vi doveva provvedere il principe Federico Cesi, capo dell’Accademia dei Lincei; perciò nel maggio del 1630 Galileo si portò a Roma e si mise in relazione con il p. Niccolò Riccardi, maestro del Sacro Palazzo, per averne la licenza per la stampa. La regola imposta era che fosse esposto il sistema eliocentrico come pura ipotesi matematica e perché nel testo non era così, si dovette ridurre l’opera sotto aspetto ipotetico, con un capo ed una perorazione in tal senso, ed anche il corpo della trattazione doveva subire dei ritocchi; dopo ciò il p. Riccardi si riservava il diritto di rivedere il tutto. In ogni modo il primo esame riuscì favorevole. Il 1° agosto  1630 il Cesi moriva ed il Galilei decise che la stampa si facesse a Firenze con dedica al granduca; ma, causa le lunghe titubanze del p. Riccardi, essa non fu terminata che nel febbraio del 1632 ed uscì con l’imprimatur del vicegerente di Roma, del maestro dei Sacri Palazzi, dell’Inquisitore di Firenze, del vicario generale di Firenze e del governo granducale.

• Il libro fu diffuso largamente dal febbraio del 1632 e giunse anche a Roma, dove il suo contenuto non piacque e nel luglio si tentò di impedirne colà la diffusione; il Papa volle in proposito che si andasse sino al fondo e se ne occupasse senz’altro il Sant’Uffizio; ed infatti una commissione fu incaricata dell’esame. Convincimento comune fu ben tosto che, nonostante le apparenze, l’autore difendesse come vera la teoria copernicana; si notò che la prefazione inviata dal p. Riccardi da Roma era stampata in carattere diverso, quasi come estranea al resto, e che venivano bistrattati autori venerati nella Chiesa. Ed a chi proponeva che lo si correggesse, il Papa rispose che sarebbe stato necessario rifare da capo tutto il libro. Le decisioni non si fecero attendere molto. Il 23 settembre 1632 Urbano VIII fece comandare all’Inquisitore di Firenze che intimasse, nelle forme legali, a Galileo di comparire entro ottobre dinanzi all’inquisizione romana. Le dilazioni di Galileo, che allegava le sue cattive condizioni di salute, furono ritenute come scappatoie e si ricorse alle minacce, si volle avere il manoscritto originale e si fecero ritirare tutti gli esemplari stampati. Poiché il Papa non intendeva cedere, anche il granduca esortò Galileo all’ubbidienza. Questi lasciò Firenze il 20 gennaio 1633, giunse a Roma il 12 febbraio e si costituì dinanzi al tribunale. Gli fu concessa la dimora presso l’ambasciatore di Toscana, Nicolini, al Pincio, con obbligo di vivere ritirato. Solo il 12 aprile fu obbligato ad entrare nel palazzo del Sant’Uffizio, dove gli furono assegnate le sole tre stanze disponibili, senza chiusura, con libertà di scendere in cortile, di tenere un servitore e ricevere il cibo dall’ambasciata. L’interrogatorio cominciò subito. Galileo aveva sperato di essere ammesso a difendere le sue teorie, ma non era questa la pratica del tribunale, per il quale esse erano ormai qualificate sino dal 1616 ed infatti la prima domanda del p. commissario Vincenzo Macolano fu sul precetto fattogli allora dal card. Bellarmino; Galileo ammise d’essere autore del Dialogo, aggiungendo di non avere «in detto libro né tenuta, né difesa l’opinione della mobilità della terra e della stabilità del sole». Su questa denegazione Galileo tentò di imperniare la sua difesa, mentre, come giustamente notava il p. commissario, il contrario «apparisce manifestamente nel libro da lui composto». Per risparmiargli misure di rigore, il commissario ottenne di trattare estragiudizialmente con lui, ed il 20 aprile lo indusse ad ammettere di avere ecceduto nel suo libro in favore delle dottrine copernicane e nel secondo interrogatorio del 30 aprile ammise che «gli argomenti portati per la parte falsa (copernicana) ch’egli intendeva di confutare, fossero in tal guisa pronunciati che per la loro efficacia fossero più potenti a stringere che facili ad esser sciolti», e si dichiarò pronto a scrivere in senso contrario e ad aggiungere a tale scopo una o due giornate al suo dialogo. Dopo questo secondo interrogatorio fu subito concesso di nuovo al Galilei, per motivo di salute, di stare «loco carceris» nel palazzo dell’ambasciatore Nicolini, tenendosi sempre a disposizione del Sant’Uffizio.

• Nella terza chiamata davanti al Sant’Uffizio, il 10 maggio, a proposito del precetto intimatogli nel 1616, Galileo insistette nell’asserire «di non avere scientemente e volontariamente trasgredito ai comandamenti fattigli» allora, e quanto al Dialogo non fece che riferirsi a quanto aveva detto nel primo interrogatorio. Egli sperava forse di sottrarsi ad una formale abiura, ma era chiaro che le sue asserzioni non erano vere. Dopo ciò il Papa il 16 giugno comunicò le sue decisioni: si doveva senz’altro ormai interrogare Galileo su quello che realmente sentisse (super intentionem) con la minaccia anche della tortura; e se avesse sostenuto, doveva fare l’abiura e venir condannato al carcere ad arbitrio della Congregazione con ingiunzione di non trattar più in alcun modo la dottrina copernicana sotto pena di essere trattato come «relapso»; il Dialogo si doveva proibire e la sentenza rendere pubblica trasmettendola ai nunzi ed inquisitori nei diversi paesi e specialmente a Firenze. L’interrogatorio «super intentionem» si svolse davanti al p. commissario il 21 giugno ed il Galilei sostenne di nuovo che prima del 1616 era stato indifferente fra i due grandi sistemi, ma che dopo non aveva più difeso il sistema copernicano. E fattagli la minaccia della tortura, rispose di essere lì per fare l’obbedienza, insistendo di nuovo sulla negativa quanto al sistema copernicano. La minaccia non era che un elemento procedurale, né avrebbe potuto, secondo la regola, essere inflitta a lui vecchio e malato; infatti «fu rimandato al luogo suo», e l’indomani nel convento della Minerva, davanti ai cardinali e prelati della Congregazione, gli fu letta la sentenza; in essa, pur ritenendo che Galileo non avesse detto pienamente la verità, si riconobbe che nell’esame rigoroso aveva risposto cattolicamente; in ogni modo egli si era reso «vehementer suspectum de haeresi» incorrendo nelle censure e pene relative; da esse dopo l’abiura veniva assolto; il Dialogo veniva proibito e l’autore condannato al carcere del Sant’Uffizio ad arbitrio della Congregazione con l’obbligo di recitare per tre anni una volta la settimana i sette salmi penitenziali. Galileo fece l’abiura secondo la formola prescritta accettando gli obblighi impostigli. Questo il processo di Galileo, per il quale, senza riprendere più in esame la decisione dottrinale del 1616 a proposito della inaccettabilità nel campo religioso del sistema copernicano, Galileo fu giudicato e condannato sul fatto della sua continuata adesione ad esso, dimostrata soprattutto dal Dialogo dei massimi sistemi. Ormai egli era un carcerato del Sant’Uffizio; però come carcere gli fu assegnato il Palazzo dell’oratore sul Pincio; il 30 giugno ebbe per grazia di soggiornare a Siena presso quell’arcivescovo Ascanio Piccolomini; poi il 1° dicembre ebbe il permesso di ritirarsi nella sua villa del Gioiello presso San Matteo d’Arcetri ch’egli aveva comperato il 27 settembre 1631 e colà rimase, come carcerato, sino alla morte. Vano fu infatti ogni tentativo di ottenere per lui grazia completa: Urbano VIII non ne volle sapere. Gli ultimi anni del Galileo furono contristati da noiose malattie nelle quali gli mancò il conforto della figliuola suor Maria Celeste, morta il 2 aprile 1634; nel dicembre del 1637 egli divenne completamente cieco. Particolarmente gli dispiacque la proibizione di stampa per tutte le sue opere. Tuttavia non intermise mai i suoi studi, particolarmente sul «moto e le resistenze», come egli stesso scriveva il 12 luglio 1636 e ne formò un volume stampato dagli Elzevir a Leida nel 1638 che fu venduto subito anche a Roma: Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica et i movimenti locali. (...)