• Poiché per i re è stabilito un premio così grande nella beatitudine celeste, se si saranno comportati bene nel governare, essi devono badare a se stessi con accurata diligenza, affinché non diventino tiranni. Niente infatti deve essere loro più gradito dell’essere portati alla gloria del regno celeste da quello stesso onore regio dal quale sono esaltati in terra. Sbagliano invece i tiranni che per qualche interesse terreno abbandonano la giustizia, perché si privano di un bene così grande, che potrebbero ottenere governando con giustizia. Nessuno poi, a meno che non sia stolto o privo di fede, ignora come sia sciocco perdere beni grandissimi ed eterni per dei beni così meschini e soggetti all’usura del tempo.

• Bisogna poi aggiungere che i vantaggi temporali per i quali i tiranni trascurano la giustizia provengono ai re in quantità maggiore col rispetto della giustizia, E questo a cominciare dall’amore di amicizia, poiché fra le cose di questo mondo non c’è niente degno di essere preferito all’amicizia. È essa infatti che unisce gli uomini virtuosi, e conserva e promuove la virtù. Di essa tutti hanno bisogno per compiere qualsiasi impresa; di essa che nei momenti di prosperità non importuna e nelle avversità non abbandona. È essa che provoca i piaceri più grandi, al punto che qualunque cosa piacevole senza amici diventa noiosa, e qualunque cosa difficile dall’amore è resa facile e quasi insignificante. E non esiste un tiranno tanto crudele che non si diletti dell’amicizia. Infatti si narra che una volta Dionigi, tiranno di Siracusa, aveva decretato di uccidere uno dei due amici che si chiamavano Damone e Pizia. Quello che doveva essere ucciso chiese una dilazione per andare a casa a riordinare le proprie cose; l’altro si diede in ostaggio al tiranno per garantire il ritorno dell’amico. Avvicinandosi poi il giorno stabilito e poiché quello non tornava, tutti accusavano di stoltezza quello che si era dato in ostaggio. Ma lui ripeteva di non temere nulla dalla costanza dell’amico. E questi nell’ora stessa in cui doveva essere ucciso tornò. Ammirando il loro animo il tiranno condonò il supplizio per la loro fedeltà nell’amicizia; anzi li pregò dì accogliere anche lui come terzo nell’ambito della loro amicizia.

• Ma i tiranni, per quanto lo desiderino, non possono conseguire il bene dell’amicizia. Infatti, nel momento in cui, invece di cercare il bene comune, cercano quello personale, la comunione con i sudditi diventa piccola, o inesistente addirittura. Ogni amicizia invece si basa su una qualche comunanza. Infatti noi vediamo che si uniscono in amicizia persone che si avvicinano per origine di natura, o per somiglianza di costumi, o per la comunanza di un qualsiasi rapporto sociale. Perciò, l’amicizia del tiranno col suddito è meschina o addirittura inesistente, mentre i sudditi sono oppressi dall’ingiustizia; e sentendo di non essere amati ma disprezzati, certamente non amano. I tiranni non hanno di che lamentarsi dei sudditi, se da questi non sono amati, poiché non si comportano con loro in modo da rendersi amabili.

• I buoni re, invece, siccome si preoccupano del bene comune, in modo che i sudditi si accorgono di riceverne molti vantaggi, sono amati da molti, perché dimostrano di amare i loro sudditi: infatti odiare gli amici e rendere ai benefattori male per bene è proprio di una cattiveria più grande di quella che si riscontra nella massa. Da questo amore deriva che il governo dei buoni re sia stabile, perché per essi i sudditi accettano di esporsi a ogni sorta di pericoli. Un esempio di questo si ha nella storia di Giulio Cesare, del quale Svetonio racconta che amava talmente i propri soldati che, appresa l’uccisione di alcuni di essi, non si tagliò i capelli e la barba finché non li ebbe vendicati; e con questo comportamento rese i soldati molto devoti a lui e valorosissimi, tanto che molti di essi, catturati, essendo stata loro concessa la vita a condizione di combattere contro Cesare, rifiutarono. E Ottaviano Augusto, che usò del potere con molta moderazione, era tanto amato dai sudditi che molti, morendo, ordinavano che le vittime che avevano promesso per sé venissero immolate perché gli dèi lo conservassero in vita.

• Non è dunque facile che sia turbato il dominio di un principe che il popolo ama con così grande consenso. Di qui le parole di Salomone (Prov., 29, 14): «II trono del re che giudica i poveri con giustizia sarà stabile in eterno». Il dominio dei tiranni invece non può durare a lungo, dal momento che è odioso alla moltitudine; poiché non si può conservare a lungo ciò che è in contrasto con i desideri di molti. È difficile infatti che qualcuno trascorra tutta la vita senza patire qualche avversità; e nel tempo dell’avversità non può mancare l’occasione di insorgere contro il tiranno: e quando c’è l’occasione, non manca tra molti chi ne approfitta. Il popolo poi accompagna col suo incoraggiamento chi insorge, ed è raro che non raggiunga l’effetto ciò che si tenta col favore del popolo. Dunque è difficile che il governo tirannico duri a lungo.

• Ciò risulta chiaramente anche se si considera il modo col quale si conserva il dominio dei tiranni. Questo infatti non si conserva con l’amore, dal momento che poca o nulla è l’amicizia dei sudditi verso il tiranno, come risulta dalle cose già dette prima. Né i tiranni possono fare affidamento sulla fedeltà dei sudditi. Infatti non si trova in molti una virtù di fedeltà così grande che li trattenga dallo scuotere, avendone la possibilità, il giogo di una servitù indebita. Anzi, secondo l’opinione di molti, non è da reputare contrario alla fedeltà qualsiasi tipo di resistenza alla perfidia del tiranno. Dunque resta che un governo tirannico si regge solo sul timore; perciò i tiranni si sforzano in tutti i modi di essere temuti dai sudditi. Ma il timore è un debole fondamento. Infatti coloro che sono tenuti sottoposti per mezzo del timore, se si offre l’occasione in cui possono sperare l’impunità, insorgono contro i loro capi con tanto maggior ardore quanto più contro la propria volontà erano trattenuti soltanto dal timore: come fa l’acqua, la quale, se viene chiusa con forza, appena trova uno sbocco irrompe con maggior impeto. E lo stesso timore non è senza pericolo, poiché molti per il troppo timore cadono nella disperazione. La disperazione della salvezza poi spinge a tentare audacemente qualunque cosa. Dunque il dominio del tiranno non può durare a lungo.

• Questo inoltre è dimostrato più dagli esempi che dai ragionamenti. Se infatti si considerano le gesta degli antichi e gli avvenimenti moderni, difficilmente si troverà che il dominio di un qualche tiranno è durato a lungo.

• Perciò anche Aristotele nella sua Politica, dopo aver enumerato molti tiranni, dimostra come il loro dominio sia finito in breve tempo; alcuni di essi, tuttavia, comandarono più a lungo, perché non eccedevano molto nella tirannide, ma sotto molti aspetti imitavano la moderazione regale. • La cosa finalmente è resa ancora più chiara dalla considerazione del giudizio divino. Dio infatti come è detto in Giobbe (XXXIV, 30), «fa regnare l’uomo ipocrita per i peccati del popolo». Ora, nessuno può essere detto più veracemente ipocrita di chi assume l’ufficio di re, e poi si comporta da tiranno. Infatti viene chiamato ipocrita colui che rappresenta la persona di un altro, come capita di solito negli spettacoli. Così dunque Dio permette che i tiranni governino, per punire i peccati dei sudditi. Questa punizione nelle Scritture viene chiamata di solito ira di Dio. Perciò per bocca di Osea (XIII, 11) il Signore dice: «Nel mio furore vi darò un re». Infelice è poi il re che viene dato al popolo nel furore di Dio. Il suo dominio infatti non può essere stabile: perché «il Signore non si dimenticherà di avere pietà e nella sua ira non cesserà dalle sue misericordie» (Salm, 76, 10); anzi per bocca di Gioele (II, 13) è detto che «è paziente e molto misericordioso, e predisposto a condonare il peccato». Dio dunque non permette che i tiranni regnino a lungo, ma dopo aver scatenato la tempesta nel popolo per mezzo di essi, con la loro cacciata fa ritornare la tranquillità. Perciò nell’Ecclesiastico (X, 17) si dice: «Dio ha distrutto i troni dei condottieri superbi e al loro posto ha fatto sedere i miti».

• Dall’esperienza risulta anche che i re con la giustizia si procurano più ricchezze che i tiranni con la rapina.

• Infatti, poiché il dominio dei tiranni dispiace alla moltitudine soggetta, essi hanno bisogno di avere molte guardie per essere sicuri dei loro sudditi; e per queste guardie debbono spendere molto più di quanto possano rapinare ai sudditi. Invece il dominio di quei re, che piacciono ai sudditi, ha come guardie tutti i sudditi, per i quali non occorre spendere; anzi questi talvolta nelle necessità donano spontaneamente ai re molto di più di quanto i tiranni possano rapinare ai sudditi; e così si adempie quello che dice Salomone (Prov., XI, 24): «Gli uni (cioè i re) dividono le proprie cose beneficando i sudditi, e diventano più ricchi; gli altri (cioè i tiranni) rapinano le cose non proprie, e sono sempre nel bisogno». Così avviene per giusto giudizio di Dio, che coloro i quali ingiustamente ammassano ricchezze le dissipino inutilmente, oppure che giustamente ne vengano privati. Come infatti dice Salomone (Ecclesiaste, V, 9), «l’avaro non si sazierà di denaro, e chi ama il denaro non ne raccoglierà il frutto»; anzi, come è detto nei Proverbi (XV, 27): «Chi segue l’avarizia turba la propria casa». Ai re, invece, che cercano la giustizia le ricchezze sono date in più da Dio, come a Salomone, il quale, avendo chiesto la sapienza per giudicare, ricevette la promessa di abbondanti ricchezze.

• Della fama poi sembra superfluo trattare. Chi dubita infatti che i buoni re non solo in vita, ma ancora di più dopo la morte, in un certo qual modo vivono nelle lodi degli uomini, e sono rimpianti; mentre il nome dei malvagi, o viene subito dimenticato o, se furono eccezionali nella malvagità, è ricordato con detestazione? Perciò Salomone (Prov., X, 7) afferma: «La memoria del giusto è in benedizione, mentre il nome degli empi marcirà», perché, o svanisce, o rimane in cattivo odore.

Da San Tommaso d’Aquino, De regimine principum ad regem Cypri, Principi non negoziabili sulla società e sulla politica, Libro I, Capitolo X, Il re o chi presiede deve adoperarsi a ben governare, sia per il bene proprio, sia per l’utilità che ne deriva. Il contrario avviene nel regime tirannico.