Il dono divino ed i doni umani. Dio, per pura liberalità, ci dà questo dono, che, di conseguenza, è chiamato un dono gratuito, ben diverso dai doni umani. Non so se i lettori si sono divertiti qualche volta a studiare la psicologia di coloro che a questo mondo fanno un regalo. Poveri doni umani! Come alzano spesso una voce di ironia e di protesta, verso chi ad essi si avvicina! Quante volte ad una persona si fa un dono, perché se ne spera qualcosa! Qualche volta il dono è simile al deposito di una somma in una Cassa di risparmio, fatto da chi vuol domani ritirare non solo la somma, ma anche gli interessi! Il preteso altruismo dei doni spesso non è che un egoismo, munito d’un cannocchiale! Talvolta ancora il dono è una ricompensa per un favore ricevuto: non è un do ut des, ma un «do perché hai già dato»: un saldo di conti, in povere parole. Ed anche nella più ideale delle ipotesi; anche quando un cuore largo, solo per impulso di generosità, dona a chi non gli ha dato e non gli darà nulla, non è forse vero che, persino allora, il dono presuppone la persona beneficata e le sue doti, ed ha come motivi il perfezionamento morale del benefattore? Niente di tutto questo nel dono della grazia. L’uomo non poteva far nulla per meritarlo; e Dio, a sua volta, non aumenta in perfezione o in beatitudine, concedendolo. La natura umana - che, quando in Adamo veniva elevata all’ordine soprannaturale, non aveva meriti, e quando, dopo la caduta, veniva rielevata, aveva invece dei demeriti - riceveva un dono del tutto gratuito, che ci fu concesso per i meriti di Gesù Cristo. - La sorgente della grazia. Il significato di queste ultime parole non potrà esserci chiarito se non in seguito. Solo esponendo la storia della caduta e della redenzione, potremo giungere all’unica sorgente della grazia: il Verbo Incarnato. La divinizzazione degli Angeli e dell’uomo, la giustificazione delle genti che precedettero la venuta del Messia e di quelle che lo seguirono, l’adozione dei figli di Dio e la gloria soprannaturale, è un grande oceano immenso, formato da diversi fiumi: tutti, però, questi fiumi hanno un’unità di origine: il Cuore di Cristo. L’amore di Dio opera l’unione soprannaturale dell’uomo con Lui, mediante l’unione personale o ipostatica del suo eterno Figlio con la nostra natura e col sacrificio di Gesù. L’uomo non diventa Dio, se non per mezzo dell’Uomo-Dio, unico mediatore fra Dio e l’uomo. Ed è per questo che in una delle similitudini più espressive, tramandateci dal Vangelo di san Giovanni, Gesù insegnava: «Io sono la vera vite... Rimanete in me; ed io in voi. Come il tralcio non può da se dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi se non rimanete in me. Io sono la vite; voi i tralci; se uno rimane in me, e io in lui, questi porta molto frutto; perché senza me non potete far niente». Uniti a Gesù Cristo, partecipiamo la sua vita divina; la nostra unione con Lui - mediante la grazia - è l’inizio ed il mezzo della nostra trasformazione in Dio. In altre parole: la grazia è il filo, che deve unire ognuno di noi al nostro Gesù. Gioverà soffermarci un istante su questa unione con Dio, mediante la grazia - unione egregiamente spiegata da Mons. Vigna con un episodio commovente. Si racconta nella vita del Murillo, che un vecchio pittore spagnolo, essendo vicino a morire, fece chiamare un sacerdote per gli ultimi Sacramenti. Il sacerdote venne ed in seguito gli portò il Viatico, accompagnato da un fanciullo, che, secondo gli usi di quel paese, agitava il turibolo. Si pregò a lungo ed il ragazzo si avvicinò al letto, col suo turibolo ormai spento. L’ammalato guardò, prese un pezzetto di carbone, e sulla parete bianca, alla quale era appoggiato il letto, disegnò l’immagine di Nostro Signore Gesù Cristo. Fu allora che il fanciullo, dopo averlo seguito col più vivo interessamento, disse al vegliardo: «Anch’io vorrei dipingere l’immagine di Dio». Ed il vecchio, ponendogli una mano sul capo, gli rispose: «Abbi sempre Dio in te, se vuoi dipingere l’immagine di Dio». Dio - lo sappiamo dalla filosofia - è presente a tutto, perché tutto sostenta e in tutti opera. Dovunque c’è un essere, là c’è Dio. Ogni cosa, il vivente soprattutto, e, fra i viventi, in modo speciale l’intelligenza umana, hanno l’essere e l’agire che loro partecipa l’essere, la vita e l’intelligenza divina; Est Deus in nobis: c’è Dio nell’uomo (...). Ma, con la grazia, Dio è presente in noi in un modo più ammirabile, in quanto ci trasforma con la sua virtù divina e ci costituisce suoi figli adottivi. - I figli di Dio. I teologi distinguono la grazia in attuale ed in abituale. La prima si riduce ad un raggio rapido di Dio, che illumina la mente, ad una scossa della volontà, con cui Dio ci spinge: è transeunte come l’opera, non è permanente come una disposizione durevole. Ai peccatori ed ai giusti Dio concede copiosa questa rugiada di grazie attuali, che avviano e sostengono i primi nella giustificazione, e conservano e spronano i secondi nella via del bene. Non è di questa grazia che qui discorriamo, ma piuttosto dell’altra, chiamata grazia santificante o abituale, principio intrinseco e trasformatore, «qualità divina, inerente nell’anima, simile a luce, il cui splendore, avvolgendo e penetrando le anime, ne cancella le macchie della colpa e loro comunica una radiosa bellezza», come insegna il Catechismo del Concilio Tridentino. Essa opera in noi un rinnovamento interiore, per dirla col Bellarmino, ci trasforma ad immagine di Dio, rendendoci puri e santi, e ci rende partecipi della natura divina, come insegna san Pietro. Ecco perché san Tommaso d’Aquino a ragione ha potuto scrivere clic «la perfezione risultante per una sola anima dal dono della grazia sorpassa tutto il bene sparso nell’universo». Nulla, infatti, v’è in tutto l’ordine naturale, nonostante le sue bellezze, che possa paragonarsi alla divinizzazione nostra ed a ciò che la produce. E chi ha studiato il catechismo non sente stupore alcuno, leggendo nella vita di santa Caterina da Siena, scritta dal B. Raimondo da Capua, suo confessore, come la Santa, essendole mostrata un giorno da Gesù un’anima della quale ella aveva ottenuto la conversione con la preghiera e la penitenza, esclamasse: «La bellezza di quell’anima era tale, che nessuna parola saprebbe esprimerla!». E Nostro Signore, indicandole quel divino splendore, le soggiungeva: «Non ti sembra graziosa e bella quest’anima? Chi dunque non accetterebbe qualunque pena, per guadagnare una creatura così ammirabile?». Ecco, dunque, la buona novella di Gesù, che ci ha insegnato a pregare, invocando Dio col nome di Padre: «Padre Nostro, che sei nei cieli»; che non esitava con la Maddalena a parlare così: «Ascendo al Padre mio e Padre vostro»; che ammoniva Nicodemo solennemente: «In verità, in verità ti dico, se uno non sarà nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio» e che alle meraviglie del suo interlocutore rispondeva distinguendo «i nati della carne» ed i nati di Spirito Santo. Gesù è venuto al mondo - proclama san Giovanni nel prologo del suo Vangelo - per dare il potere a quanti lo avessero accolto, ai credenti nel suo nome «di diventare figlioli di Dio, i quali non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati». Il cuore dell’Evangelista esultava a simile verità e nella sua Epistola esciva in queste commosse riflessioni: «Guardate di quale amore ci ha amato il Padre, dandoci di essere chiamati e di esser figli di Dio! E tali siamo. Questa è la ragione per la quale il mondo non ci conosce, perché non ha conosciuto Lui. O diletti, fin da ora siam figli di Dio; e quel che saremo non è ancor reso manifesto. Sappiamo, che, quando quel che saremo sarà manifestato, saremo simili a Dio, perché lo vedremo com’Egli è». E che altro sono tutte le Epistole di San Paolo, se non una predicazione costante degli ineffabili misteri della grazia e della filiazione divina? Quando scriveva ai Galati, egli annunciava che «giunta la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figliuolo... onde a noi fosse dato di ricevere l’adozione dei figli. E poiché voi siete figli, Iddio v’ha mandato nel cuore lo Spirito del suo Figliuolo, nel quale gridiamo: Abba! cioè Padre! Di guisa che voi non siete più schiavi, ma figli, e se siete figli, siete anche eredi per grazia di Dio». La stessa dottrina ampiamente illustrò ai Romani; ed anche quando era prigioniero e rivolgeva la sua ammirabile lettera a quelli di Efeso, nel momento in cui si preparava a rivelare loro il mistero nascosto da secoli, era talmente rapito dalla grandezza del mistero dell’adozione divina per i meriti di Gesù Cristo, che dimenticava le sue tristi condizioni e le sue catene, per sciogliere, all’inizio dell’Epistola, un inno di lode e di ringraziamento al Cielo, «Benedetto sia Iddio, - esclamava - il Padre di Nostro Signor Gesù Cristo, che ci ha benedetti in Cristo con ogni sorta di benedizioni spirituali. In Cristo infatti Egli ci ha eletti, prima della creazione del mondo, affinché fossimo santi ed immacolati nel suo cospetto nella carità, e ci ha predestinati a diventare per mezzo di Gesù Cristo suoi figli adottivi, secondo la benignità del suo volere, a lode della manifestazione gloriosa della sua grazia, della quale nel Diletto suo Egli ci ha gratificato». Oggi le Epistole di san Paolo non si leggono se non da pochi, e pochissimi fra i pochi lettori le comprendono, perché manca loro questa chiave necessaria per poter capirne il senso: la distinzione, cioè, fra l’ordine soprannaturale e l’ordine naturale, il concetto della grazia e dell’adozione divina. E purtroppo tale fondamento del Cristianesimo è poco considerato anche nella predicazione. Si trascurano eccessivamente le radici, per limitarsi ad un fiore dell’albero, senza riguardare il fiore nello spirito vivificatore che lo ha prodotto e che lo anima. Nei primi secoli della Chiesa non era così. Le opere immortali dei Padri greci e latini ci attestano che il soprannaturale formava l’oggetto precipuo dei discorsi, delle omelie, della catechesi. Sant’Agostino non temeva di diffondersi su questo argomento con gli umili pescatori d’Ippona. II grande Dottore nel De civitate Dei insegnava: «II Figlio di Dio, il suo unico Figlio secondo la natura, per una meravigliosa condiscendenza è divenuto figlio dell’uomo, affinché noi, che siamo figli dell’uomo per natura nostra, diventassimo figli di Dio per la sua grazia». E così san Massimo, san Giovanni Damasceno, san Gregorio Nisseno cantavano «il mistero della nostra elevazione soprannaturale», per cui Dio «ha voluto deificarci», assimilandoci a Lui mediante la grazia, «L’uomo - soggiungeva san Gregorio di Nissa - l’uomo che per sua natura non è che cenere, paglia e vanità, è stato da Dio elevato dallo stato di creatura alla condizione di figlio»; e divenendo figli di Dio, noi «siamo grandi della grandezza di nostro Padre». Nell’Oriente e nell’Occidente non risonavano che queste voci; e fu la nuova coscienza d’esser divenuti figli di Dio, fu l’annuncio buono della nostra divinizzazione, che ha creato la nuova civiltà, non più umana soltanto, ma cristiana. Era così vivo e profondo il senso del dono divino, della grazia, che essa non restava una nozione astratta, ma implicava un mutamento radicale di vita. ...

La Grazia. Il dono divino ed i doni umani. La sorgente della grazia. I figli di Dio (parte 1). Da Il Sillabario del Cristianesimo, mons. F. Olgiati, Vita e Pensiero, Milano, 1942. SS n° 11, p. 3 - 4