La prima pagina della storia dell’umanità è, in parte, simile alla storia degli Angeli. Anche qui abbiamo la creazione, l’elevazione all’ordine soprannaturale, la caduta, il castigo; solo - a differenza degli Angeli - abbiamo la promessa della Redenzione e la riparazione. Esponiamo il dogma con tutta la semplicità voluta dal Catechismo, senza perderci in questioni esegetiche intorno al primo capitolo della Genesi, né in discussioni teoriche. La nuda enunciazione dogmatica basterà a rispondere sia alle obbiezioni di chi si scandalizza della trasmissione del peccato originale e non comprende come mai noi dobbiamo esser puniti per una colpa non personale; sia allo stupore provocato in alcuni dal fatto che un frutto, un misero frutto, mangiato da Adamo ed Eva, abbia prodotto conseguenze così disastrose. Tutte queste difficoltà derivano dal non considerare organicamente il dogma cattolico e dal non conoscere con esattezza cos’è l’ordine soprannaturale. Dopo quello che abbiamo detto nei capi precedenti, non ci sarà difficile cogliere il vero senso del dato rivelato. 1. - L’uomo elevato e l’uomo decaduto. Nelle Preghiere di S. Caterina da Siena trovo un accenno magnifico, che mi suggerisce un paragone. L’umanità è simile ad un albero; ed i nostri progenitori sono questo albero primitivo nel suo germe, nelle sue radici, nella sua origine. Da essi dovevano provenire fiori e frutti ed altri alberi innumerevoli, che costituiscono l’attuale foresta della famiglia umana. Avviciniamoci all’albero primitivo dell’umanità, per studiarne la storia. È chiaro che una rovina di questo albero, o, se si vuole, di questo germe, doveva significare la rovina di tutta la foresta successiva, tanto che nessun albero - per sé - avrebbe, poi, potuto essere prodotto, se non con lo stigma della tabe originaria. Se la sorgente è avvelenata, resta avvelenato tutto il corso delle acque, coi suoi rivoli e con le sue diramazioni; ed anche il grande fiume dell’umanità, se è rovinato alla sua sorgente, ne porta inesorabilmente le conseguenze per sempre. Così avvenne. Iddio creò i nostri progenitori ed a questo albero dimostrò la Sua infinita bontà. Tre categorie di beni, infatti, noi possiamo distinguere nell’uomo, come lo voleva Iddio. a) Innanzi tutto, Adamo ed Eva ebbero i beni rispondenti alla loro natura umana, vale a dire, un corpo ed un’anima, con la ragione e con la libertà del volere. Questi beni, essendo dovuti all’uomo in quanto uomo, si chiamano doni naturali. Iddio non era obbligato a darci di più: e se noi fossimo stati lasciati nell’ordine naturale, l’albero nostro avrebbe avuto i fiori ed i frutti di una attività puramente umana. b) Ma, come dicemmo, unicamente per Suo amore, Iddio volle innalzarci ad un ordine superiore alla nostra natura, o, per dirla con l’efficace espressione di S. Caterina, ci ha innestato in Lui. Non ha voluto che gli alberi della grande foresta avessero solo un fremito di vitalità umana; volle che questo fremito fosse divinizzato; volle che noi fossimo Suoi figli; e voleva anche che al paradiso dell’eternità corrispondesse il paradiso della terra. Perciò Adamo ed Eva, oltre i doni della natura, ebbero i doni soprannaturali, primo fra i quali la grazia santificante od abituale. c) Non contento di ciò, il Signore a quell’albero primitivo divinizzato aggiunse una terza categoria di beni: i doni praeternaturali, in quanto l’umanità sarebbe stata sottratta al dolore ed alle infermità, alla tirannia delle passioni o concupiscenza, all’ignoranza ed alla morte. Per sé, questa ultima classe di doni non divinizza l’uomo e, se non fossero accompagnati dalla grazia, essi ci perfezionerebbero, sì, di là di ciò che spetta naturalmente all’uomo, come composto di materia e, soggetto alla corruzione e alla ribellione dei sensi, ma ci lascerebbero nell’ordine puramente umano. Non si possono, quindi, definire, almeno in senso proprio, doni soprannaturali, come, d’altra parte, non essendo dovuti essenzialmente alla nostra natura, non sono neppure doni naturali. Sono praeter, ossia fuori dalle esigenze della natura nostra, quantunque non la superino e non la elevino ad un altro ordine. Tale era il primo albero umano, nella sua bellezza. E Dio aveva unito in tal modo i doni soprannaturali e praeternaturali al primo germe, che i nostri progenitori, trasfondendo nei figli la natura, avrebbero in essi trasfuso anche la grazia, l’incorruttibilità, l’esenzione dalla concupiscenza e dall’ignoranza, l’immortalità. Adamo ed Eva non rappresentavano soltanto se stessi, ma tutti gli alberi della foresta, che da essi sarebbero provenuti; ed Adamo, come capo anche di Eva e padre del genere umano, era il vero e primario custode e depositario di tutti i doni sublimi elargiti da Dio, come trasmissibili a tutti i suoi discendenti. In tale condizione, adunque, i nostri progenitori furono sottoposti alla prova, ad un atto, cioè, di omaggio, di obbedienza, di devozione a Dio, ad un atto di amore all’Amore supremo, che tanto li aveva beneficati. Se avessero obbedito, riconoscendo in tal modo il loro Dio, non solo essi, ma tutti i loro discendenti avrebbero avuto le tre classi di doni suaccennati; se si fossero ribellati, Dio avrebbe lasciato all’umanità i doni della natura, ma - appunto perchè l’uomo si ribellava a Dio - avrebbe tolto al primo albero, di conseguenza a tutti gli altri, i doni soprannaturali e praeternaturali, ai quali l’uomo non aveva nessun diritto. Come sappiamo, Adamo ed Eva caddero, mangiando il frutto vietato. L’albero dell’umanità, la cui radice traeva il succo della grazia e dell’immortalità da Dio, spezzato il vincolo santificatore per la colpa suggerita dal serpente infernale, non fu più innestato in Dio; perdette il succo divino della grazia santificante e degli altri beni praeternaturali, e rimase solo con l’alimento che gli dava l’arida terra, come la pianta dispogliata del Paradiso terrestre di Dante. Dopo la colpa, Adamo ed Eva, e gli alberi da loro generati, avrebbero avuto sempre la natura umana, ma non i doni della soprannatura e della praeternatura. Il poeta lombardo, il Manzoni, nel suo inno Il Natale, paragona l’uomo decaduto al ... masso che dal vertice Di lunga erta montana Abbandonato all’impeto Di rumorosa frana, Per lo scheggiato calle, Precepitando a valle, Batte sul fondo e sta. Ecco che cos’è il peccato originale, col quale nascono tutti i figli di Adamo. Esso non include un’offesa personale nostra a Dio, - ossia, fatta da noi con un atto libero, - ma consiste unicamente - almeno secondo la più probabile opinione - nella privazione della grazia, che per divina volontà noi dovevamo avere fin dall’origine, e conseguentemente nella privazione della possibilità della stessa visione beatifica di Dio. Adamo ed Eva ci trasmisero una natura, che avrebbe dovuto avere la grazia, e che invece non l’ha più. Si dirà: se Iddio non ci avesse elevati all’ordine soprannaturale, tutti nasceremmo senza grazia; eppure nasceremmo senza peccato originale; come si può adunque, asserire che il peccato originale consiste solo nella mancanza della grazia? Rispondo: se esamino un contadino che sta lavorando nel campo, lo trovo ignorante in geometria; egli non sa neppure cosa sia il teorema di Pitagora; v’è in lui mancanza di scienza. Eppure io non lo condanno; la sua ignoranza è una negazione di scienza che egli non è tenuto ad avere e nulla più. Talvolta, se esamino uno studente, che si presenta agli esami, anch’egli quanto a geometria ed a matematica in genere, ne sa come il contadino; ma la sua mancanza di scienza non è una semplice negazione, è la privazione d’una dote che dovrebbe avere e che non ha per sua negligenza: per questo lo boccio di santa ragione. A pari: in un puro ordine naturale, il nascere senza grazia non suonerebbe condanna, come non suona rimprovero la negazione di scienza nel contadino; i figli di Adamo, invece, ricevono una natura, che dovrebbe essere rivestita della grazia, e, al contrario, ne è privata. La differenza è enorme ed essenziale. E si capisce allora come S. Paolo possa parlare di noi, che per natura nasciamo «figli di ira»; la natura nostra, per la sua privazione della grazia, manca di un dono che dovrebbe avere e che non ha per colpa del suo capo; manca del soffio soprannaturale di Dio, della veste dell’innocenza originale, della vita divina partecipata; in altre parole, non è più una natura divinizzata, ma una natura decaduta. In questo senso, come S. Paolo c’insegna e come proclama il Concilio di Trento, il peccato originale ha una vera e propria ragione di peccato, non in quanto sia una colpa nostra personale derivante dalla nostra volontà, ma in quanto è il peccato della natura, che noi da Adamo partecipiamo. Come, allora, diventa luminosa la promessa del Redentore fatta nel paradiso terrestre, l’annuncio iniziale, cioè del dogma dell’incarnazione! L’uomo, decaduto dall’ordine soprannaturale (e non solo privato dei beni praeternaturali, che Iddio non volle più concedere all’umanità), con le sole sue forze di natura non avrebbe mai potuto riconquistare le altezze perdute. Il nostro ingegno, la buona volontà, tutte le nostre lacrime, gli atti di eroismo più alto e di abnegazione più squisita, hanno un valore naturale e non avrebbero mai potuto meritare la grazia ed i doni della soprannatura. Il masso, canta ancora il poeta lombardo, Là dove cadde, immobile Giace in sua lenta mole Né per mutar di secoli Fia che riveggia il sole Della sua cima antica, Se una virtude amica In alto nol trarrà. Fu allora, che al «misero figliuol del fallo primo» Iddio promise la redenzione. Iddio stesso si incarnerà, vivificherà l’albero rovinato dalla natura umana. Il peccato - che consiste nella separazione dell’uomo da Dio - sarà riparato dall’unione di Dio con l’uomo, - unione personale od ipostatica nell’incarnazione del Verbo, unione mediante la grazia in coloro che dal Verbo Incarnato avranno la nuova vita. Non posso fare a meno - a questo punto - di riportare una pagina di S. Caterina, poiché nessuno, meglio dei mistici nostri, esprime a perfezione il dogma rivelato e le stesse sublimi speculazioni della teologia di San Tommaso d’Aquino. Continuando il paragone dell’albero, S. Caterina così prega: «Per la qual cosa Tu, alta ed eterna Trinità, come ebbra d’amore e pazza per la tua creatura, vedendo che questo albero non poteva più produrre che frutto di morte, essendo separato da Te che sei vita, gli desti il rimedio con quel medesimo amore, col quale lo creasti, innestando la Deità tua nell’albero morto della nostra umanità. - O dolce e soave innesto! Tu, somma dolcezza, ti sei degnato unirti con la nostra amaritudine; Tu splendore con le tenebre; Tu sapienza con la stoltezza; Tu vita con la morte; Tu infinito con noi finiti. Chi ti costrinse a questa unione con la tua creatura per renderle la vita, avendoti essa fatto tanta ingiuria? Solamente l’amore, e per questo innesto si dissolvè la morte. - Bastò alla tua carità d’aver fatto quest’unione? No; e però Tu, Verbo eterno, innaffiasti questo albero con sangue tuo. Questo sangue col suo calore fa germinare l’albero, se l’uomo con libero arbitrio s’innesta in Te, unisce e lega a Te il cuore e l’affetto suo, legando e lasciando questo innesto con la fascia della carità e seguitando la dottrina tua».