Ciò che ferisce gli occhi - afferma Papa Pio XI nella Divini Redemptoris (15.05.1931)- è che «ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza (e disporre di ricchezza non è affatto un male in sé: “Non può esservi capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale”, cfr. Rerum novarum, n. l5), ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento».

Questo potere - prosegue il Pontefice - diventa «più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare».

Questa concentrazione di forze e di potere nelle mani di pochi uomini che hanno in odio il sudore della fronte (cfr. Genesi, III, 19), «che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza».

Questa innaturale concentrazione delle ricchezze e del potere «genera tre specie di lotte per il predominio: 1) Dapprima si combatte per la prevalenza economica; 2) Poi ci si contrasta accanitamente per il predominio sul potere politico, per valersi delle sue forze e della sua influenza nelle competizioni economiche; 3) Infine si lotta tra gli stessi Stati, o perché le nazioni adoperano le loro forze e la potenza politica per promuovere i vantaggi economici dei propri cittadini, o perché applicano il potere e le forze economiche per troncare le questioni politiche sorte fra le nazioni».

Le ultime conseguenze di questo spirito individualistico nella vita economica sono: 1) «La libera concorrenza si è da se stessa distrutta»; 2) «Alla libertà del mercato è sottentrata l’egemonia (della finanza)»; 3) «Alla bramosia del lucro è seguita la sfrenata cupidigia del predominio»; 4) «Infine tutta l’economia è così divenuta orribilmente dura, inesorabile, crudele».

A tutte queste funestissime conseguenze - insiste Pio XI - «si aggiungono i danni gravissimi che sgorgano dalla deplorevole confusione delle ingerenze e servizi propri dell’autorità pubblica con quelli della economia stessa». Per citarne uno solo tra i più importanti: «L’abbassarsi della dignità dello Stato, che si fa servo e docile strumento delle passioni e ambizione umane, mentre dovrebbe assidersi quale sovrano e arbitro delle cose, libero da ogni passione di partito e intento: a) al solo bene comune; b) alla giustizia (due verità oggettive, ndR)».

Nell’ambito delle relazioni internazionali, «da una stessa fonte sgorgò una doppia corrente»: 1) «Da una parte, il nazionalismo o anche l’imperialismo economico»; 2) «Dall’altra non meno funesto ed esecrabile, l’internazionalismo bancario o imperialismo internazionale del denaro, per cui la patria è dove si sta bene».

Essendo, pertanto, «l’ordinamento economico moderno fondato particolarmente sul capitale e sul lavoro, devono essere conosciuti e praticati i precetti della retta ragione, ossia della filosofia sociale cristiana, concernenti i due elementi menzionati e le loro relazioni». In questo modo, «per evitare l’estremo dell’individualismo da una parte, come del socialismo dall’altra, si dovrà soprattutto avere riguardo del pari alla doppia natura, individuale e sociale propria, tanto del capitale o della proprietà, quanto del lavoro».

Le relazioni fra capitale, proprietà e lavoro «devono essere regolate secondo le leggi di una esattissima giustizia commutativa, appoggiata alla carità cristiana. È necessario che la libera concorrenza, confinata in ragionevoli e giusti limiti, e più ancora che la potenza economica siano di fatto soggetti all’autorità pubblica, in ciò che concerne l’ufficio di questa». Infine «le istituzioni dei popoli dovranno venire adattando la società tutta quanta alle esigenze del bene comune cioè alle leggi della giustizia sociale (le leggi cristiane e della retta ragione, ndR); onde seguirà necessariamente che una sezione così importante della vita sociale, qual è l’attività economica, verrà a sua volta ricondotta ad un ordine sano e bene equilibrato».  

Orbene, Papa Leone XIII «adottò ogni mezzo per disciplinare questo ordinamento economico (capitale - lavoro, ndR), secondo le norme della rettitudine; sicché è evidente che esso non è in sé da condannarsi (altrimenti il venerando Pontefice non lo avrebbe semplicemente disciplinato, ma anatematizzato, ndR)». E infatti non è di sua natura vizioso: «Però viola il retto ordine, quando il capitale vincola a sé gli operai, ossia la classe proletaria, col fine e con la condizione di sfruttare a suo arbitrio e vantaggio le imprese e quindi l’economia tutta, senza far caso, né della dignità umana degli operai, né del carattere sociale dell’economia, né della stessa giustizia sociale e del bene comune».

Prosegue la prossima settimana: Il Pontefice, dopo averne smascherato le cause, spiega le ragioni dell’avvento del Socialismo: «Che nel perseguire i suoi intenti non v’è (malvagità) che non (usi), niente che rispetti: e dove si è impadronito del potere, si dimostra tanto più crudele e selvaggio, che sembra cosa incredibile e mostruosa».

Carlo Di Pietro da Il Roma