Per noi è un titolo di gloria il vincere, quando siamo condotti innanzi ai tribunali, e battuti e vilipesi e condannati; è questo per noi un vestimento di palme, un carro trionfale, diceva Tertulliano a nome dei cristiani nel suo Apologetico, i martiri sono invincibili: 1° perché hanno la fede e la speranza in Gesù Cristo, per i cui meriti Dio concede loro abbondanza di grazie, li tiene saldi, coraggiosi e forti; 2° perché vivono della speranza di una vita migliore e della risurrezione gloriosa e perché sanno come Dio renderà loro incorruttibili e gloriose quelle membra che espongono ai tormenti; 3° perché pensano che poca e breve cosa sono i tormenti, in paragone della mercede immensa ed eterna che ne avranno. Questi pensieri sostengono, incoraggiano e rallegrano i martiri in mezzo alle più violente torture, ai più atroci spasimi. Tutti i martiri spiegarono un coraggio straordinario ed invincibile. Guardate i sette fratelli di cui si parla nel 2° libro dei Maccabei: preferiscono lasciare la vita tra inauditi supplizi, anziché macchiarsi, col mangiare cibi vietati. Si tengono fedeli alla legge di Dio ed al feroce persecutore che li tenta, rispondono: - Che cerchi tu da noi, e che vuoi sapere? Noi siamo pronti a morire prima che violare le leggi tramandateci dai padri nostri (...). Nella loro madre poi che forza eroica risplende! Essa li incoraggia, se li vede morire sotto gli occhi, e martire della sua fede, perde ella medesima la vita (...). Il giudice Asclepiade ordina che a Romano di Antiochia siano lacerate le carni in modo da metterle a brani. «Fai pure - gli risponde il santo martire - feriscimi e lacerami da ogni parte; quanto più mi laceri, tanto più ti ringrazio; perché queste ferite saranno come altrettante bocche con le quali loderò e predicherò Gesù Cristo; quante saranno le piaghe, tante saranno le voci che benediranno e glorificheranno Iddio».

• Di san Celerino martire così scrive san Cipriano: «Egli era carico di catene, ma aveva lo spirito libero; sottoposto a diverse torture, riuscì più forte di loro; prigioniero, dominò coloro che lo tenevano in ferri; steso sul rogo, comparve più grande di coloro che stavano ritti della persona; vittima, si mostrò più gagliardo dei suoi uccisori; sentenziato, apparve più nobile dei suoi giudici; e benché avesse i piedi legati, tuttavia atterrò il serpente, lo vinse e gli schiacciò la testa». Prudenzio attesta di san Vincenzo martire nelle Spagne, che l’eculeo, la prigione, i graffi di ferro, i pettini, i carboni ardenti, le graticole infocate, la morte, tutto fu per lui un trastullo (In Martyr.).

• Davvero che non ho mai trovato persona, gridava il prefetto Modesto, accennando a san Basilio là presente, che abbia osato parlarmi con tanto ardire! - Questo è perché, gli rispose l’illustre pontefice, non ti sei fino ad ora imbattuto in un vescovo (Stor. eccles.). Ingiuria il Cristo, diceva il proconsole di Smirne a Policarpo, ed avrai salva la vita: Sono novanta anni, rispondeva il santo vescovo, che lo servo, non mi ha mai fatto altro che del bene, e perché io dovrei ingiuriare? Non mai; sarò fedele fino alla morte (In Vita). Io sono frumento di Gesù Cristo, scriveva il vescovo di Antiochia san Policarpo, bisogna che sia macinato dai denti delle belve, se voglio diventare pane degno di essere offerto a Gesù Cristo (...). O il fuoco mi riduca in cenere, o una croce mi consumi con morte lenta e crudele, o mi sbranino tigri furiose, leoni affamati, o mi pestino il corpo, o mi sloghino le ossa, o mi mettano a brani, facciano insomma della mia persona quello che vogliono i demoni, tutto sopporterò con gioia, purché io giunga al possesso di Cristo (Epist. ad Rom.).

• Mentre andava al supplizio, santa Cecilia diceva: «Morire martire non è sacrificare la gioventù, ma è un farne cambio con un’altra migliore; è dare fango e ritirare oro; è lasciare una piccola e diroccata capannuccia per un ampio, magnifico palazzo, splendente di gemme; è dare una cosa peritura e vile per riceverne una imperitura e pregevolissima (Act. S. Caecil. mart.).

• Così apostrofava sant’Agata l’inviato del giudice Quinziano: «Che cosa aspetti, o Afrodisio? Flagella, taglia, squarcia, lacera, brucia, pesta questo mio corpo, toglimi la vita; quanto più mi farai soffrire, tanto maggiori grazie e favori mi procurerai dallo sposo mio Gesù Cristo. Sia che Quinziano mi sguinzagli contro i leoni, sia che arroventi le caldaie, sia che affili le punte dei coltelli; apra anche, se lo può, le porte dell’inferno, e adoperi per tormentarmi non solamente tutta la violenza degli uomini, ma anche la rabbia dei demoni; io sopporterò tutto e morirò vergine cristiana (...). Io non temo né le minacce né le crudeltà sue, perché Dio, al quale ho consacrato il corpo e l’anima mia, mi custodirà». Afrodisio poi, rendendo conto a Quinziano di ciò che aveva visto e udito e dell’impressione che avevano fatto su Agata le lodi, le promesse, le minacce, diceva che riuscirebbe più facile cangiare in molle cera i duri sassi o il ferro in piombo, anziché strappare dal cuore di Agata il suo amore per Gesù Cristo e per la castità: «Per amore di Gesù essa tutto calpesta, e nessun tormento le sembra grave; ad altro non pensa giorno e notte, se non che a morire per Lui» (Surio, Vite dei Santi).

• Racconta sant’Ambrogio che la vergine Agnese richiesta in matrimonio dal figlio del prefetto di Roma, gli rispose che Gesù suo sposo era infinitamente più bello, più nobile, più ricco e più grande di lui. Ed aggiunse: «Via da me, fomento di peccato, alimento di morte; io appartengo a Gesù Cristo; vedi quest’anello, pegno della fedeltà che gli ho promesso; la sua generosità è più grande, il suo potere più esteso, il suo sguardo è più attraente, il suo amore è più dolce di tutto ciò che tu possa offrirmi. Io sono sposa a colui la cui madre è vergine, il cui padre non conosce donna; gli angeli lo servono; il sole e gli astri s’inchinano al suo splendore; risuscita i morti col su o fiato, guarisce gli infermi col solo toccarli; infinite ed eterne sono le sue ricchezze. A lui solo conservo la mia fede, a lui solo mi affido; lui amando sono casta, lui toccando sono monda, lui sposando rimango vergine» (Serm. XC).

• Avendo il proconsole domandato alla vergine martire Serapia, dove fosse il tempio di quel Gesù ch’ella adorava, e qual sacrifizio gli offerisse, si udì rispondere: «Mantenendomi in castità, io sono il tempio di Gesù Cristo a cui offro me stessa in sacrifizio».-  Orbene, replicò il proconsole, se ti si toglie la castità, cesserai di essere il tempio di Gesù Cristo? - La vergine gli rispose allora con quelle parole di san Paolo: «Se alcuno fa oltraggio al tempio di Dio, il Signore lo sterminerà» (...). Tale è il coraggio e la forza che spiegarono tutti i martiri. Ammirabile è la loro vita, ma più ammirabile ancora è la loro morte.

I Tesori di Cornelio Alapide.