• Raccontavano che il padre Gelasio aveva un libro di pergamena, che valeva diciotto monete. Conteneva tutto il Vecchio e il Nuovo Testamento. Lo lasciava in chiesa, perché potessero leggerlo i fratelli che lo desideravano. Un giorno venne un fratello forestiero a far visita all’anziano e, visto il libro, bramò di possederlo; lo rubò e se ne andò. Benché l’avesse notato, l’anziano non gli corse dietro per prenderlo. Giunto quegli in città, cercò di venderlo e, trovato un acquirente, gli chiese la somma di sedici monete. Colui che voleva comperarlo, gli disse: «Dammelo, prima lo faccio stimare, e poi ti darò quel che vale». Avutolo, lo portò dal padre Gelasio perché lo stimasse, dicendogli il prezzo richiesto dal venditore. L’anziano gli disse: «Compralo, è bello e vale il prezzo che hai detto». Ma l’altro, tornato dal rivenditore, riferì la cosa diversamente da quanto l’anziano gli aveva detto. Disse: «Ecco, l’ho mostrato al padre Gelasio ed egli mi ha detto che è caro e non vale la cifra che hai detto». Udito ciò, il fratello gli chiese: «L’anziano non ti ha detto nient’altro?». «No». Allora dice: «Non voglio più venderlo». E, preso da compunzione, ritornò dall’anziano per esprimergli il suo pentimento e lo pregò di riprendere il libro. Questi non voleva, ma alle parole del fratello: «Se non lo prendi non avrò pace», disse: «Se non puoi aver pace, lo prendo». Il fratello rimase quindi presso di lui fino alla morte, molto edificato dallo zelo del vecchio (145c-148a; PJ XVI, 1).

• Il padre Gelasio ereditò un giorno la cella ed il terreno in costante da un anziano, anch’egli monaco, che abitava vicino a Nicopoli. Un parente del defunto, contadino di Vacato - che a quel tempo era governatore di Nicopoli di Palestina - si recò da Vacato con la pretesa di avere quel terreno che, a suo parere, gli spettava per legge. Questi, che era un violento, tentò di prendere con le proprie mani il terreno al padre Gelasio. Ma il padre Gelasio non acconsentiva, perché non voleva che una cella monastica fosse data a uno del mondo. Quando Vacato vide le bestie del padre Gelasio trasportare le olive del terreno da lui ereditato, le trascinò dietro a sé con violenza, portò le olive in casa sua, quindi rimandò con oltraggi le bestie e i loro conduttori. Il beato vecchio non reclamò alcun diritto sul raccolto, ma non cedette per nulla quanto al possesso del terreno, per la ragione che s’è detta. Infiammato d’ira, Vacato si diresse a Costantinopoli, spinto anche da altre questioni analoghe, perché era un uomo litigioso. Intraprese il viaggio a piedi e giunse vicino ad Antiochia, dove risplendeva un grande luminare, il santo Simeone (un famoso anacoreta del V secolo, ndR). Vacato, che era cristiano, sentì parlare di quest’uomo straordinario e fu preso dal desiderio di vederlo. Il santo Simeone, dalla colonna, lo vide giungere e, entrato subito in monastero, gli chiese: «Donde vieni? E dove vai?». Egli disse: «Vengo dalla Palestina e vado a Costantinopoli». E l’altro a lui: «E per quale motivo?». «Per molti affari, gli disse Vacato, e spero, grazie alle preghiere della tua santità, di ritornare e baciare i tuoi santi piedi». «Sventurato! - gli disse il santo Simeone - non vuoi ammettere di esserti eretto contro l’uomo di Dio? Tu non farai buon viaggio, né rivedrai mai più la tua casa. Se vuoi seguire il mio consiglio, torna indietro, va’ in fretta da lui, dimostragli il tuo pentimento, se mai tu riesca ad arrivare là vivo». Vacato, colto immediatamente da una forte febbre e trasportato in un lettuccio da coloro che l’accompagnavano, si affrettò, secondo le parole del santo Simeone, a tornare dal padre Gelasio, per chiedergli perdono. Ma, giunto a Berito, morì, senza aver visto la sua casa, secondo la profezia del santo. Tutto questo è stato raccontato a numerosi testimoni degni di fede dal figlio di lui, che si chiamava pure Vacato, dopo la morte del padre (148ad).

• Molti dei suoi discepoli raccontavano di lui anche questo: «Un giorno fu portato loro del pesce che il cuoco frisse e consegnò poi al cellerario. Sopraggiunta una qualche altra necessità, il cellerario uscì dalla dispensa lasciando il pesce in un recipiente per terra, raccomandando ad un piccolo discepolo del beato Gelasio di custodirlo fino al suo ritorno. Ma il bambino, vinto dalla gola, si mise a mangiare avidamente il pesce. Quando il cellerario rientrò e lo trovò che mangiava seduto per terra, preso dalla collera, gli diede incautamente un calcio. Il bambino, colpito mortalmente da un’energia demoniaca, perse i sensi e morì. Il cellerario, in preda a grande umore, lo avvolse nella sua stuoia e, tenendolo coperto, andò a gettarsi ai piedi del padre Gelasio e gli riferì l’accaduto. Gelasio gli ingiunse di non dirlo a nessun altro, di portarlo nel diaconico la sera, dopo che tutti fossero andati a letto, di porlo di fronte all’altare e poi andarsene. Quindi l’anziano, ritirato nel diaconico, vi rimase in preghiera. Quando i fratelli si riunirono per la salmodia notturna, l’anziano uscì seguito dal fanciullo. E fino alla sua morte nessuno seppe il fatto tranne lui e il cellerario» (148d-149ab). Tratto da Vita e detti dei Padri del deserto, edizione Città Nuova, 1999.

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