Studiando i principali punti programmatici dell’estinto Centro Politico Italiano, abbiamo notato che al § 11, citato la scorsa settimana, si legge: «L’imposizione da parte dell’Autorità statale di tributi fiscali è giustificata dalla rispondenza dei suoi servizi alle esigenze del bene comune e deve incidere in misura equamente progressiva sui redditi di capitale nei confronti di quelli di lavoro. Realizzate queste premesse deve ripristinarsi nella coscienza pubblica, anche nei confronti delle leggi fiscali, il concetto che queste, quando sono giuste e giustamente applicate, obbligano in coscienza». (cf. Nuova All., Quad. VIII, p. 29).

Proviamo ad approfondire, sebbene con sintesi. L’imposta è quel tributo (o quella tassa) che lo Stato preleva dalla ricchezza privata per coprire le proprie spese e per provvedere ai servizi pubblici (che non necessariamente devono essere tutti immediati). Due sono i soggetti coinvolti: la legittima Autorità ed il suddito, pertanto duplice ne è il suo aspetto morale. È di necessità naturale l’esistenza dello Stato che deve avere come suo fine il bene comune dei cittadini, quindi deve avere i mezzi, anche economici, per poterlo concretamente conseguire. Può accadere che lo Stato non riesca ad ottenere altrimenti (p. es. vendendo energia al confinante) questi mezzi, totalmente od in parte, cosicché capiamo che ha il diritto naturale, entro certi limiti, di esigere i tributi dai propri sudditi.

Molti abusano le parole di Gesù - «Rendete dunque a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» - per fare apologia della cosiddetta laicità. In verità, san Luca (XX, 25) intende, per bocca di Gesù stesso, confermare positivamente il diritto della legittima Autorità di esigere adeguati tributi. Nulla a che fare con la pretesa ed eretica (cf. Quas Primas, Pio XI) proclamazione di laicità degli Stati, anzi l’esatto contrario, difatti «la potestà agl’imperatori ed ai re è data dal cielo» (San Gregorio Magno) e, come vuole Leone XIII, «i cittadini, sentendo la forza di questo dovere, debbono necessariamente (sapere) che chi resiste alla potestà politica, resiste alla volontà divina», tuttavia «se il volere dei prìncipi (legittima Autorità) ripugna al volere ed alle leggi di Dio, essi stessi eccedono la misura della loro potestà e pervertono la giustizia: né in tal caso può valere la loro autorità, la quale è nulla quando non vi è giustizia» (cf. Diuturnum Illud).

La proposizione «Rendete dunque a Cesare …» viene concettualmente usata già da san Paolo: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio (…). Per questo dunque dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio» (Romani, XIII, 1.6). Va riconosciuto, però, che Gesù accettò di pagare un certo tributo (cf. san Matteo, XVII, 27) esclusivamente per non destare scandalo (essendo venuto al mondo per adempiere alla legge), benché Egli, Re e Sacerdote, non ne fosse obbligato in coscienza (cf. Dizionario di erudizione …, G. Moroni, vol. LXXIV, pag. 174).

San Tommaso d’Aquino riconosce la legittimità di esigere tributi con fondamento nel bene comune: non è lecito impiegare i tributi per esigenze meramente particolari (cf. De Regimine principum). È altresì moralmente richiesto che con i tributi si osservi l’ordine della carità: soddisfare immediatamente le primarie ed impellenti necessità, secondo il retto ordine di giustizia.

Ogni cittadino è naturalmente membro della società nella quale la Provvidenza lo ha collocato, pertanto il suo contributo al bene comune è parimenti un obbligo di diritto naturale. I principali teologi sostengono che, supposta giusta la legge fiscale, essa obbliga in coscienza. Sovente gli Stati, consapevoli del gran numero di contravventori (o evasori), prevedono tributi superiori alle reali necessità, nell’intenzione di poter incassare, alla fine dei conti, almeno quanto basti. Può succedere anche che gli Stati abusino ulteriormente del loro diritto di imporre i tributi. In questo caso, valutate le circostanze secondo i criteri della prudenza, si può essere moralmente non obbligati e, come attestano esimi moralisti, il cristiano che volesse comunque pagare secondo le proprie possibilità questi iniqui tributi (usati in parte anche per le primarie necessità dei più deboli), non restandogli più nulla di superfluo avrebbe già soddisfatto il precetto di aiutare i poveri (cf. Enciclopedia Cattolica, 1954, Vol. XII, col. 512).

Papa Leone XIII afferma: per evitare (anche) l’emigrazione di massa è necessario «che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte».

Papa Pio XI, commentando la citata Rerum novarum, afferma: «Non è lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti la proprietà privata da renderla quasi stremata» (cf. Quadragesimo anno).

Papa Pio XII, rivolgendosi agli uomini di responsabilità nelle pubbliche finanze, ammonisce: «Astenetevi da quelle misure, che, malgrado la loro abilità tecnica, urtano e offendono nel popolo il senso del giusto e dell’ingiusto, sottovalutano la sua forza vitale, la sua legittima ambizione di raccogliere il frutto del proprio lavoro, la sollecitudine per la sicurezza familiare: tutte considerazioni che meritano di occupare nella mente del legislatore il primo posto e non l’ultimo» (Atti e discorsi di Pio XII, vol. X, p. 285).

Ed ancora: «Fate in modo che la morale (popolare) non riceva danni dall’alto». Lo spazio a mia disposizione è oramai terminato. Voglio concludere citando sempre Papa Pio XII, Discorso del 2 ottobre 1956: «L’impôt ne peut donc jamais devenir pour les pouvoirs publics un moyen commode de combler le déficit provoqué par une administration imprévoyante, de favoriser une industrie ou une branche de commerce aux dépens d’une autre également utile. L’État s’interdira tout gaspillage des deniers publics; il préviendra les abus et les injustices de la part de ses fonctionnaires» (cf. Discours et messages-radio de S.S. Pie XII, XVIII, Dix-huitième année de Pontificat, pp. 507-510). Traduco: «La tassa non può quindi mai diventare un mezzo conveniente per i governi per compensare il deficit causato da un’amministrazione improvvisata, per favorire un’industria o ramo di commercio a scapito di un’altra altrettanto utile. Lo Stato si asterrà da ogni spreco di denaro pubblico; eviterà gli abusi e le ingiustizie da parte dei suoi funzionari». Prosegue …

Carlo Di Pietro da Il Roma