Papa Pio XI, nella Quadragesimo anno (15 maggio 1931), ammonisce: «Voi conoscete, venerabili Fratelli e diletti Figli, come il Nostro Predecessore (Leone XIII), abbia difeso gagliardamente il diritto di proprietà contro gli errori dei socialisti, dimostrando che l’abolizione (o l’alterazione) della proprietà privata tornerebbe, non a vantaggio, ma ad estrema rovina della classe operaia. E poiché (vi sono) quelli che, con la più ingiuriosa delle calunnie, accusano il Sommo Pontefice e la Chiesa stessa, quasi abbia preso o prenda ancora le parti dei ricchi contro i proletari, e poiché tra i cattolici stessi si riscontrano dissensi intorno alla vera e schietta sentenza Leoniana, Ci sembra bene ribattere (ad) ogni calunnia contro quella dottrina, che è la cattolica, su questo argomento, e difenderla da false interpretazioni».

Dunque il Pontefice espone, contro le calunnie e contro le false interpretazioni, l’immutabile dottrina cattolica a riguardo.

In primo luogo: «Si (deve) ritenere per certo, che né Leone XIII né i teologi che insegnarono sotto la guida e il vigile Magistero della Chiesa, negarono mai o misero in dubbio la doppia specie di proprietà, detta individuale e sociale, secondo che riguarda gli individui o spetta al bene comune; ma hanno sempre unanimemente affermato che il diritto del dominio privato viene largito agli uomini dalla natura, cioè dal Creatore stesso, sia perché gli individui possano provvedere a sé ed alla famiglia, sia perché, grazie a tale istituto, i beni del Creatore, essendo destinati a tutta l’umana famiglia, servano veramente a questo fine; il che in nessun modo si potrebbe ottenere senza l’osservanza di un ordine certo e determinato».

La proprietà privata è, come impariamo, un diritto naturale.

Pertanto: «Occorre guardarsi diligentemente dall’urtare contro un doppio scoglio. Giacché, come negando o affievolendo il carattere sociale e pubblico del diritto di proprietà si cade e si rasenta il cosiddetto “individualismo”, così respingendo e attenuando il carattere privato e individuale del medesimo diritto, necessariamente si precipita nel “collettivismo” o almeno si sconfina verso le sue teorie. E chi non tenga presente queste considerazioni, va logicamente a cadere negli scogli del modernismo morale, giuridico e sociale, da Noi denunciati nella Nostra prima enciclica (Ubi arcano del 23 dicembre 1922). E di ciò si persuadano coloro specialmente che, amanti delle novità, non si peritano d’incolpare la Chiesa con vituperose calunnie, quasi abbia permesso che nella dottrina dei teologi s’infiltrasse il concetto pagano della proprietà, al quale bisognerebbe assolutamente sostituire un altro, che con strana ignoranza essi chiamano “cristiano”».

Il Papa denuncia e contrasta uno dei tanti errori eruttati dai divulgatori della «sintesi di tutte le eresie» (cfr. Pascendi, San Pio X), il modernismo, pestilenziali soggetti che spacciano per cristiano ciò che è, invece, ignoranza ed irragionevolezza. Per rispondere ad una delle tante obiezioni mosse dai sediziosi, il Pontefice spiega: «La giustizia commutativa vuole che sia scrupolosamente mantenuta la divisione dei beni, e che non si invada il diritto altrui col trapassare i limiti del dominio proprio; che poi i padroni non usino se non onestamente della proprietà, ciò non è ufficio di questa speciale giustizia, ma di altre virtù, dei cui doveri non si può esigere l’adempimento per vie giuridiche (cfr. Rerum novarum, n. 19). Onde a torto certuni pretendono che la proprietà e l’onesto uso di essa siano ristretti dentro gli stessi confini; e molto più è contrario a verità il dire che il diritto di proprietà venga meno o si perda per l’abuso o il non uso che se ne faccia».

Ciò premesso: «La pubblica autorità non può usare arbitrariamente di tale diritto (non può trapassare i limiti del dominio privato); poiché bisogna che rimanga sempre intatto e inviolato il diritto naturale di proprietà privata e di trasmissione ereditaria dei propri beni, diritto che lo Stato non può sopprimere, perché l’uomo é anteriore allo Stato (cfr. Rerum novarum, n. 6), ed anche perché il domestico consorzio è logicamente e storicamente anteriore al civile (ivi., n. l0). Perciò il sapientissimo Leone XIII aveva già dichiarato non essere lecito allo Stato di aggravare tanto con imposte e tasse esorbitanti (o con altre misure) la proprietà privata da renderla quasi stremata. Poiché non derivando il diritto di proprietà privata da legge umana, ma da legge naturale, lo Stato non può annientarlo, ma semplicemente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune (ivi., n. 35)».

Per concludere diciamo che lo Stato, il datore ed il prestatore d’opera devono, insieme e nel rispetto della legge di natura, adoperarsi diligentemente per il bene pubblico e domestico. A questo proposito occorre tenere bene a mente la sentenza dell’Apostolo: «Chi non vuole lavorare non mangi (2 Tess., 3, 10)». Sentenza proferita contro quelli che si astengono dal lavoro, quando potrebbero e dovrebbero lavorare»; ma non insegna che il lavoro sia l’unico titolo per ricevere vitto e proventi (cfr. 2 Tess., 3,8-10). Cfr. Dizionarietto di Dottrina politica dei Papi (Ed. L’alleanza italiana, 1960, Vol. 1, pag. 142) ed altrove.

Carlo Di Pietro da Il Roma