Terminata la prima parte introduttiva a ‘Teologia politica e Dottrina sociale’, veniamo adesso ad alcune obiezioni, usando principalmente lo schema proposto da mons. Émile-Maurice Guerry nel suo volume del 1958 «La doctrine sociale de l’Eglise», edito da Bonne Presse, Paris - edizione italiana per i tipi di Ares, Roma.
Prima obiezione: Anacronismo della Dottrina sociale della Chiesa (Op. cit., pag. 39). Fra le tante sgarbate obiezioni a quanto enunciato, una delle più note, quella immediata, è, più o meno, formulata in tal guisa: «La Dottrina sociale della Chiesa è superata. È fatta per un’epoca di cristianesimo. Ora la società è diventata moderna (ovvero profana). Gli Stati moderni intendono organizzare da sé il proprio ordine politico, economico e sociale». Quanti volti tristi obiettano così? Eppure, essi stessi sanno di essere, oramai, davvero frustrati nel mondo profano così bramato.
Risposta: «Contrariamente a quanto suppone l’obiezione, la Dottrina sociale della Chiesa è stata elaborata nell’era contemporanea, [sebbene poggi sull’ordine eterno], per rispondere direttamente e precisamente ai problemi sociali che si pongono agli Stati moderni» (Ivi.).
Domanda retoricamente mons. Guerry: «Un fatto storico dal quale non si è abbastanza tratto insegnamento è assai istruttivo: chi mai ha, con tanta energia, riconosciuto e rispettato l’autonomia della città temporale nel suo ordine, distinguendo gli ambiti rispettivi della Chiesa e dello Stato moderno?».
Il conoscitore della materia, merce assai rara ai giorni nostri, saprà facilmente citare il nome del grande Papa Pecci, Leone XIII, e della sua Immortale Dei dell’anno 1885. Con l’Enciclica Immortale Dei, sulla costituzione cristiana degli Stati, Leone XIII ribadisce alcune indicazioni della sua Diuturnum Illud, tuttavia ammonisce: «È la stessa natura che testimonia come qualsiasi potere derivi dalla più alta e augusta delle fonti, che è Dio. La sovranità popolare che si afferma insita per natura nella moltitudine indipendentemente da Dio, se serve ottimamente ad offrire lusinghe e ad infiammare grandi passioni, non ha in realtà alcun plausibile fondamento, né possiede abbastanza forza per assicurare uno stabile e tranquillo ordine sociale. In verità a causa di tali dottrine si è giunti al punto che da molti si sostiene la legittimità della rivoluzione, vista come giusto strumento di lotta politica. È forte infatti la convinzione che i Principi non siano nulla più che semplici delegati ad eseguire la volontà popolare: ne consegue necessariamente che tutti gli ordinamenti sono ugualmente mutabili a discrezione del popolo, e incombe il continuo timore di disordini».
Dunque il Pontefice non si dice affatto contrario al progresso, ma egli spiega e motiva: «è grande e deleterio errore escludere la Chiesa, che Dio stesso ha fondato, dalla vita pubblica, dalle leggi, dall’educazione dei giovani, dalla famiglia. Non possono esservi buoni costumi in una società cui sia stata tolta la (vera) religione: e si sa ormai anche troppo bene in che consista, e a che porti quella filosofia di vita e di costumi che chiamano civile. La Chiesa di Cristo è vera maestra di virtù e custode della buona condotta: essa è colei che mantiene fermi i principi dai quali derivano i doveri, e che, esposti i più efficaci motivi per vivere virtuosamente, non solo ammonisce a fuggire le azioni malvagie, ma a controllare altresì i moti dell’animo contrari alla ragione, anche quelli che non sfociano in azioni concrete».
Chi può negare che l’unica Istituzione dogmatica, che per sua stessa natura non può cambiare né dottrina e né morale, sia proprio la Chiesa? Quale roccia può mai essere più salda della Chiesa? E quante volte ci si lamenta delle mutevoli situazioni, sempre a ribasso, poiché si è abbandonata la strada sicura per seguire chimere e fandonie?
Papa Pecci prosegue in questi termini: «non s’intende condannare alcuna delle varie forme di governo, quando esse non abbiano in sé nulla che ripugni alla dottrina cattolica e possano, se applicate con saggezza ed equità, dare un ottimo e stabile assetto alla società. […] non s’intende condannare in sé neppure il fatto che il popolo partecipi, in maggiore o minore misura, alla vita pubblica: il che può rappresentare in certe circostanze e con precise leggi, non solo un vantaggio ma anche un dovere civile. […] non v’è neppure valido motivo per accusare la Chiesa di essere restia più del giusto ad una benevola tolleranza, o nemica di un’autentica e legittima libertà».
I cattolici, «quanti sono degni di questo nome, devono anzitutto essere e manifestarsi apertamente figli amorosissimi della Chiesa, respingere senza esitazione tutto ciò che non possa conciliarsi con tale professione, servirsi delle istituzioni pubbliche, ogni volta che possano onestamente farlo, a difesa della verità e della giustizia, adoperarsi perché la libertà d’agire non travalichi i limiti stabiliti dalle leggi di natura e divine, contribuire a far sì che tutta la società si uniformi a quel modello e a quell’ideale cristiano che abbiamo descritto».
Dunque siamo ben lontani dal presentare un carattere anacronistico della Dottrina sociale della Chiesa, ma anzi, al contrario, siamo profondamente colpiti dalla sua attualità che non può sfuggire a tutti quegli accademici, cattedratici o appassionati che sappiano studiare l’argomento con lucidità e senza alcun pregiudizio.
I Sommi Pontefici (fino a Pio XII) irradiano con la luce della legge naturale, dei dogmi divini e della giusta morale cattolica tutti i problemi sociali di ogni epoca. D’altronde i frutti del comunismo e del liberalismo, le due facce della laicità, che negano questi sacrosanti diritti divini e naturali, ci consegnano oggettivamente un relitto di società, una deprimente parodia prossima all’implosione.
Carlo Di Pietro da ControSenso Basilicata