Dizionario Biblico

Per leggere la prima parte cliccare qui. La sepoltura in Vaticano è suffragata da una tradizione antichissima, sia letteraria che archeologica. Di primissimo ordine è la testimonianza del prete Caio del II secolo (Eusebio, Op. cit. II, 25, 7) che parla di un trofeo innalzato su la tomba dell’Apostolo, sicuramente identificato negli scavi del 1940-1950 sotto la Confessione della Basilica Vaticana.

La tradizione ci ha tramandato due lettere col nome del principe degli Apostoli.

I Pietro. Non è chiara la sua divisione logica dato il carattere eminentemente parenetico, per cui spesso i vari pensieri si susseguono in maniera slegata, e per la ripetizione di idee basilari. Oltre ad un esordio (1, 1-12) ed un epilogo (5, 12-14), si possono indicare tre sezioni, nelle quali rispettivamente predominano consigli ed esortazioni di ordine generale (1, 13 - 2, 10), avvisi pressanti con costante riferimento alle condizioni dei destinatari (2, 11-4, 6) oppure norme miranti in modo speciale alla vita sociale ed all’organizzazione ecclesiastica (4, 7-5, II). Lo scritto mira innanzi tutto ad esortare ed attestare (5, 12), ossia consolare i lettori, che versano in gravi difficoltà, richiamando occasionalmente ma abbondantemente i principii dottrinali di ordine soprannaturale, che giustificano ed esigono la linea di condotta proposta. Si notano riferimenti trinitari (1, 1-3; 4, 14) e cristologici (1, 2.18-21; 2, 3.13.22; ecc.). Si insiste particolarmente sulla dottrina della salvezza. Si notano inoltre elementi ecclesiologici (3, 20 s.) ed escatologici (1, 4.13.17; 2, 11; 4, 5.7; 5, 6.8). Fra le parti dottrinali è degna di rilievo la descrizione del profetismo (1, 11 s.), considerato come carisma dello Spirito Santo. I destinatari della lettera sono i fedeli del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia (ivi, 1, 1) in prevalenza provenienti dal paganesimo (cf. 1, 14; 3, 6; 4, 3), evangelizzati in parte da San Paolo e dai suoi collaboratori (Asia e Galazia) ed in parte da Giudei o proseliti convertiti nel giorno di Pentecoste (Act. 2, 9) oppure da missionari più qualificati, senza che ce ne sia stato tramandato il modo. Dal tono dello scritto sembra esclusa una evangelizzazione diretta da parte di San Pietro. I molteplici accenni a sofferenze e prove di ogni genere, subite dai destinatari: calunnie (2, 12-15), ingiurie, patimenti per la giustizia (3, 9-17), insulti (4, 4), li ha fatti pensare vittime della persecuzione neroniana; ma l’esame fa pensare alle angherie e soprusi locali, non meglio ora identificabili a causa della documentazione frammentaria in nostro possesso. Già gli antichi esegeti considerarono lo scritto come composto a Roma, desumendolo dall’espressione metaforica di 5, 13 (Babilonia). La data di composizione si può fissare negli anni 63-64 con una notevole verosimiglianza. Nello scritto, infatti, mancano allusioni sicure alla grande persecuzione scatenatasi dopo il luglio del 64. D’altra parte l’evangelizzazione di quelle regioni lontane presuppone almeno la missione efesina di Paolo (54-57). Il ricordo della presenza di Marco (5, 13) favorisce l’ipotesi che la lettera fu scritta subito dopo la liberazione di Paolo (cf. Col. 4, 10; Philem. 24). Una data anteriore pare esclusa dal fatto che è quanto mai improbabile la presenza di Pietro in Roma durante la prima prigionia di Paolo in Roma (61-63). La lettera fu scritta per mezzo di Silvano (5, 12), che appare quale compagno di Paolo col nome di Sila (cf. Act. 15, 22). La sua forma letteraria è dignitosa; ma resta sempre nell'ambito della lingua e dello stile del Nuovo Testamento. Sono stati notati molteplici e rilevanti riferimenti con i discorsi di Pietro riportati negli Atti. L’autenticità della lettera è garantita da una tradizione costante ed antichissima. Manca nel Frammento Muratoriano ; ma ciò si deve molto probabilmente ad una semplice corruzione testuale del catalogo. L’esame intrinseco non solo segnala l’attribuzione esplicita a Pietro apostolo (1, 1), ma anche diversi accenni alla vita di tale personaggio (cf. 2, 6-8; 3, 14; 4, 14; 5, 1.13). L’eleganza linguistica non può essere sfruttata come un argomento contro l’autenticità perché è relativa e non è definibile con sicurezza quanto sia da attribuirsi in questo senso a Pietro e quanto sia effetto della cultura più ellenistica di Silvano, compagno di apostolato di Paolo e cittadino romano (Act. 16, 37).

II Pietro. Dopo un brevissimo esordio, contenente l’indirizzo e i saluti (1, 1 s.), si legge un’esortazione alquanto generica alla santità di vita (1, 3-21). Si insiste sulla perseveranza nella fede, ricordando la dignità del cristiano, chiamato ad una perfetta conoscenza di Dio ed alla partecipazione della natura divina (1, 3 s.). Come corollario il venerando vegliardo, che prevede la sua fine imminente (1, 12-15), raccomanda la pratica della virtù (1, 5-11) e ricorda le basi del suo insegnamento (1, 16-21). Segue il monito di guardarsi dai falsi dottori (2, 1-3, 13), dei quali si smascherano i vizi, preannunziando il loro castigo tremendo (2, 1-22). I fedeli conservino l’insegnamento genuino dei profeti e degli Apostoli riguardo alla parusia (3, 1-13), attendendo con pazienza che si realizzino i disegni divini e preparandosi convenientemente al giudizio di Dio senza farsi traviare da dottrine di pseudodottori. Lo scritto si chiude con una nuova esortazione alla santità, richiamandosi all’insegnamento delle lettere paoline, e con una breve dossologia (3, 14-17). Non si tratta di un’opera dommatica; tuttavia si hanno meravigliosi spunti dottrinali. Basta ricordare quello su la partecipazione della natura divina (1, 4) e quello su l’ispirazione delle Scritture (1, 19-21). Non sono indicati i destinatari; tuttavia dal nome dell’Apostolo e dal richiamo 3, 1 sembra logico dedurre che si tratti dei medesimi individui, che ricevettero già la prima lettera di Pietro. Il tema svolto presuppone uno sfondo alquanto diverso, ma non contradittorio: s’insiste sul pericolo che corrono di naufragare nella fede a causa dell’opera subdola di falsi dottori bollati con epiteti molto forti. Sotto questo punto lo scritto viene a completare il quadro, piuttosto pessimistico, ricostruibile dalle lettere pastorali di Paolo, dall’Apocalisse, e, in modo particolare, dalla breve lettera di Giuda. I numerosi rilievi sull’attività dei falsi dottori non giustificano per nulla l’identificazione con qualcuno dei diversi sistemi di gnosticismo, quali compaiono nel II secolo. Gravi difficoltà sono state sollevate circa l’autenticità di questa lettera, negata dalla maggioranza degli esegeti acattolici ed anche da qualche cattolico. La tradizione antica mostra un’innegabile incertezza, come per alcune altre lettere cattoliche (v. Canone). L’esame intrinseco però esige l’autenticità petrina (cf. 1, 1.13-18; 3, 1.9.15), a meno che non si provi trattarsi di una finzione o di un artificio letterario. Anche i riferimenti stilistici e linguistici con la I Pietro e con i discorsi della prima parte degli Atti sono molto rilevanti. È evidente la profonda relazione con la - probabilmente - preesistente lettera di Giuda (v.), con la quale spesso concorda anche nell’espressione verbale. Ammessa l’autenticità petrina, si pensa che lo scritto fu composto a Roma dopo la I Pietro. Chi pone la morte dell'Apostolo nel 64 pensa all’inizio di quest’anno; quanti, invece, ritengono l’anno 67 per il martirio di Pietro hanno la possibilità di una data più elastica e più verosimile in sé (verso il 67). Fine.

Dal Dizionario biblico, Francesco Spadafora, Ordinario di Esegesi nella Pontif. Univ. del Laterano, Studium, Roma, imprimatur 1955, pagg. 460 e 461.

Uno dei primi seguaci di Gesù, capo del collegio apostolico. Il nome Pietro gli venne imposto da Gesù (Gv. 1, 42), mentre alla nascita fu chiamato Simone o Simeone. Nel famoso testo di Mt. 16, 17 è detto figlio di Giona, ma tale nome probabilmente è solo un’errata abbreviazione di Giovanni (cf. Gv. 1, 42; 21, 15-17). Era oriundo di Bethsaida Iulia a nord-est del lago di Genezareth. È certo che Pietro era sposato (cf. Mt. 8, 14), ma siccome non si parla mai di sua moglie nelle fonti autentiche, si può pensare che essa fosse morta prima dell’incontro di Pietro con Gesù. Nei Vangeli risplendono l’attaccamento di Pietro a Gesù, la sua generosità, la sua prontezza nell’interferire e la sua impulsività; ma risultano altresì evidenti i suoi difetti. È da escludere in lui una preparazione intellettuale (cf. Act. 4, 13).

Con molta probabilità già discepolo di Giovanni Battista, Pietro ebbe contatti saltuari con Gesù (Gv. 1, 40 ss.; 3, 2-12) finché, dopo la pesca miracolosa, abbandonò tutto col suo fratello Andrea per seguire il Maestro (Lc. 5, 11; Mc. 1, 18; Mt. 4, 22). Egli appare subito insieme a Giacomo e Giovanni fra i più prediletti da Gesù, testimoni di fatti straordinari (Mc. 5, 37; 9, 2; 14, 33). Anche in tale gruppo ristretto Pietro è trattato con particolare riguardo da Gesù, che amava essere suo ospite in Cafarnao (Mc. 1, 29; 2, 1; 3, 20; 9, 32 ss.), servirsi della sua barca per ammaestrare le turbe (Lc. 5, 3). Tali segni di distinzione si moltiplicano verso la fine della vita di Gesù (Mt. 17, 24-27; Lc. 22, 8-13; Gv. 13, 6-10) e subito dopo la risurrezione (I Cor. 15, 5; Mc. 16, 7). Ma in modo particolare la preminenza di Pietro è dimostrata dall’esplicita volontà di Gesù, che gli assegna un compito basilare nella direzione della sua Chiesa (Mt. 16, 17-19). La promessa è ribadita e spiegata dopo la risurrezione (Gv. 21, 15-19) in maniera da togliere ogni dubbio circa le possibili contrastanti conseguenze della triplice negazione nell’atrio del sommo sacerdote (Mc. 14, 66-72).

Subito dopo l’ascensione Pietro occupa il primo posto incontrastato fra gli Apostoli. Egli presiede all’elezione di Mattia (Act. 1, 15-26) e parla in nome di tutti sia davanti al popolo nel giorno di Pentecoste (ivi, 2, 14-40) che davanti al Sinedrio (3, 1-4.12-26; 4, 8-12; 5, 29-32); è lui che condanna Anania con la moglie Saffira (5, 1-11) e Simon Mago (8, 20-24); è lui che interviene nella nuova missione di Samaria (8, 14) e che accoglie ufficialmente il pagano Cornelio nella Chiesa (10, 1 ss.). La sua posizione preminente risulta ancora meglio nel proposito di Erode Agrippa, che intende infliggere con l’eliminazione di Pietro un colpo mortale alla Chiesa, tutta trepidante per il primo degli Apostoli (12, 5). Nell’assemblea di Gerusalemme Pietro appare nella medesima preminenza (15, 7-11), che non è affatto negata, ma piuttosto confermata dal noto incidente di Antiochia con Paolo (Gal. 2. 11-14).

La precedenza data ai fatti riguardanti Pietro negli Atti viene improvvisamente meno in Act. 12, 17 - siamo verso il 42/43 d. C. - perché Luca abbandona il suo personaggio principale per sostituirlo con Paolo, l’Apostolo dei gentili e menzionerà Pietro soltanto nella breve pericope sul Concilio degli Apostoli.

Dagli altri scritti neotestamentari risulta in maniera evidente la presenza - senza dubbio temporanea - di Pietro in Antiochia (Gal. 2, 11-14); con minore perspicuità dalla I Pt. (5, 13) si può dedurre la presenza dell’Apostolo in Roma = Babilonia. Da I Cor. 1, 12; 3, 22 non è apodittico un esercizio di ministero di Pietro in Corinto, sebbene non si possa escludere in maniera sicura.

La venuta di Pietro a Roma nei primi anni del regno di Claudio (41-54 d. C.) non è suffragata da una vera tradizione, anche se si adducono nomi più recenti, che al pari di Girolamo e di Orosio, si fanno eco dell’affermazione di Eusebio, il quale nella Cronaca parla del secondo anno di Claudio, ma altrove (Hist. eccl. II, 14, 6; 17, 1) si esprime in maniera molto più generica e nella stessa Cronaca in traduzione armena offre una data ben diversa (terzo anno di Caligola, ossia 39/40 d. C.). Anche il famoso brano di Svetonio (Divus Claudius 25, 4) su Claudio, che promulgò un editto contro i Giudei, a quanto sembra nel 49, perché in continuo tumulto e polemiche con i cristiani, non può pretendere un valore apodittico circa la presenza o meno di Pietro a Roma.

Una presenza di Pietro anteriore alla composizione della Lettera ai Romani (57) può essere richiesta dallo sviluppo del cristianesimo attestato in Rom. 1,15, poco conciliabile senza l’attività di qualche missionario di primo ordine ad esclusione di Paolo (ivi, 15, 20-24).

La presenza dell’Apostolo durante la composizione della Lettera però è poco probabile per l’omissione dei saluti per lui nel lungo elenco delle persone da salutare. La presenza di Pietro in Roma sembra parimenti esclusa durante la prigionia (61-63) di Paolo; altrimenti non si capirebbe il silenzio più assoluto nel racconto degli Atti e nelle Lettere della prigionia.

Ritenute sicurissime - come riconoscono in numero sempre maggiore anche studiosi acattolici - la venuta e la morte di Pietro a Roma, bisogna ammettere che i documenti a nostra disposizione non permettono di rappresentarci un soggiorno continuo per un lungo periodo di tempo. È possibile, invece, che vi fossero brevi soggiorni, separati da allontanamenti più o meno lunghi, dovuti ad esigenze missionarie. È certo solo che l’Apostolo a Roma vide adempiersi la profezia fattagli da Gesù (Gv. 21, 18.19).

Per l’anno della morte regna la medesima incertezza, pur essendo fuori dubbio che Pietro cadde vittima della persecuzione neroniana. Secondo San Dionigi di Corinto (cf. Eusebio, Hist. eccl. II, 25, 8), Pietro e Paolo si sarebbero ricongiunti a Corinto e, quindi, condotti a Roma, avrebbero subito il martirio insieme. Tale contemporaneità, già esclusa da Prudenzio (Peristephanon XII. 5-6) che parla di un intervallo di un anno, è negata da molti moderni. In genere si propende a porre il martirio di Pietro nel 64, al tempo della feroce persecuzione neroniana dopo l’incendio di Roma, lasciando l’anno 67 per il martirio di Paolo. Prosegue ...

Dal Dizionario biblico, Francesco Spadafora, Ordinario di Esegesi nella Pontif. Univ. del Laterano, Studium, Roma, imprimatur 1955, pagg. 458 e 459.

Nel Vecchio Testamento nella retribuzione collettiva riguardante la nazione, come tale, che era la contraente dell’Alleanza, la prosperità temporale era considerata benedizione di Dio e premio dell’osservanza dei divini precetti: cf. Levitico 26; Deuteronomio 28; e passim [sparsamente, ndR] nei libri profetici. Si tratta di sanzione adeguata al soggetto. Per il singolo individuo, analogicamente, la ricchezza veniva considerata benedizione e premio divini, la povertà un castigo. Bisogna dire che gli Ebrei, come gli antichi Semiti, avevano un’altissima idea della divina Giustizia e ne volevano constatare, toccare con mano le sanzioni, e tra queste c’era la miseria per il peccatore o i suoi discendenti, e la ricchezza per il giusto (cf. Ps. 109 [108]). Ma ben si notava la prosperità dell’empio; e alla retribuzione personale qui sulla terra, la letteratura sacra degli Ebrei, - unico esempio tra i Semiti -, aggiunge la retribuzione oltre la tomba, che compensa e sana ogni squilibrio (cf. Ps. 49; 73 [48; 72]; in Rivista Biblica, 1 [1953] 207-215).     Il problema generale è trattato direttamente in Iob (Libro di Giobbe); con la netta affermazione: le sofferenze (e perciò anche la povertà) possono colpire il giusto, per provarlo, per purificarlo. E nei Salmi, nei libri Sapienziali viene celebrato il povero che è fedele a Dio, in opposizione al ricco insipiente e stolto: cf. Proverbi 19, 1.22; 28, 6; Ecclesiaste 4, 13; 6.8; 9, 15 ecc. Spesso nei Salmi il povero perseguitato non è altro che il giusto che soffre per rimanere fedele al Signore, nella cui protezione e Provvidenza confida.

Nella nuova Economia, nel regno spirituale dell’amore fondato dal Redentore, i valori umani cedono nettamente il posto all’unico valore immutabile e reale, quello dell’anima adorna della grazia, figlia di Dio, erede del cielo. Nelle Beatitudini, preludio della magna carta del Regno, Gesù ha fissato, in accenti sublimi, questo rovesciamento. «Beati i poveri», «Guai a quanti agognano le ricchezze, pongono in esse la loro consolazione». I meno favoriti della fortuna, gli «affamati e assetati», che accettano tale stato dalle mani del Signore, sono nella condizione migliore di accogliere il suo invito: «Chi vuol venire dietro di me, pigli la sua croce assidua e mi segua» (Mt. 16, 26; Lc. 9, 23). E Gesù precisa il suo insegnamento (Mt. 5; 6). Le ricchezze, anziché essere uno stato di privilegio, costituiscono un pericolo [più possibilità materiali = maggiore mondanità = particolari tentazioni, ndR]. Non c’è alcun obbligo di disfarsene, ma c’è il dovere di usarne bene, per il precetto fondamentale ed unico: «L’amore di Dio (ossia osservare i comandamenti) e del prossimo» (cf. Mc. 10, 17-25). Se la ricchezza, infatti, è un pericolo, una tentazione, c’è qualcosa di più forte, di più potente che aiuta l’uomo, quando questi lo voglia, a superare anche quest’ostacolo: è la grazia di Dio. L’elemosina, quando si trattasse di rimediare alla ricchezza male acquisita, è il mezzo offertoci per la riparazione: «Voi purificate l’esterno della coppa, ma l’interno è pieno di rapina. Date il contenuto in elemosina ed ecco che tutto diventa puro per voi» (Lc. 11, 41). La parabola del povero Lazzaro e del ricco, dal cuore chiuso alla carità e insensibile per i beni dello spirito (Lc. 16, 19-31), riconferma e sintetizza i vari elementi ora esposti. In I Tim. 6, 5-17, San Paolo si fa eco dell’insegnamento di Gesù. «Quanto a quelli che vogliono arricchire ... e che per la grandezza del loro desiderio, mostrano quanto siano attaccati alla ricchezza, essi si mettono nella tentazione e nella rete, e in molti desideri insensati e vergognosi che precipitano l’uomo nella rovina. Perché la radice di tutti i mali è l’amor del denaro: alcuni, per essersi abbandonati ad esso, han deviato lungi dalla fede...». «Ai ricchi ordina di non inorgoglirsi, di non riporre la loro fiducia e la loro speranza nella incerta ricchezza, ma in Dio che ci elargisce tutto con prodigalità perché ne godiamo: ordina loro di fare il bene, di arricchirsi di opere buone, d’esser generosi, socievoli, tesorizzando, per sé, un buon fondamento per il futuro, per acquistare la vita vera». Nella gamma che va dallo stretto necessario per la salvezza eterna, al più alto grado della perfezione cristiana troviamo le due massime evangeliche: «Non potete essere schiavi di Dio e del danaro», bisogna scegliere; la giustizia e la pratica della carità (Mt. 6, 24; cf. Col. 3, 5); e l’altra: «Se vuoi esser perfetto, va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; e vieni dietro a me portando la croce» (Mc. 10, 21).

Dal Dizionario biblico, Francesco Spadafora, Ordinario di Esegesi nella Pontif. Univ. del Laterano, Studium, Roma, imprimatur 1955, pagg. 463 e 464.

Proseguiamo la citazione della scorsa settimana: Sono detti ossessi o indemoniati gli uomini mossi fisicamente dal demonio che dimora in loro; che sono sotto l’influenza di uno o più spiriti cattivi (Mc., 1, 23-27; Mt., 12, 43 ss; Lc., 8, 2; 11, 24 ss.). Nei Vangeli s’incontrano molti indemoniati. Espressione tangibile del dominio di Satana sul mondo (Mt., 12, 22-37; Mc., 3, 22-30; Lc., 11, 14-28); finora Satana regnava (come il signore nella propria fortezza) da padrone assoluto; ora, se è scacciato dal suo impero, a viva forza, vuol dire che è arrivato qualcuno che è più forte di lui, che ha appunto la missione di fondare il regno di Dio sulle macerie di quello di Satana. «Se io scaccio i demoni per virtù divina, il regno di Dio è già in mezzo a voi» (Mt., 12, 28). Gl’indemoniati figurano, ben distinti, fra i malati colpiti da vari mali, e guariti dal Messia (Mt., 4, 24; 8, 16)... Il demonio conosce la messianicità e divinità di Gesù e lo fa gridare dagli ossessi, chiaramente (Mc., l, 24-34; 3, 10 ss.; 5, 7; Lc., 4, 4) «Tu sei venuto per mandarci in rovina. So, chi tu sei: il Santo di Dio»; «scacciò molti demoni, ma non li lasciava parlare, perché essi lo conoscevano»; «uscivano anche demoni da molti, gridando e dicendo: Tu sei il Figlio di Dio». Queste solenni ed aperte attestazioni rientrano nel piano di Satana nettamente contrario al disegno messianico di Gesù (v. Tentazioni). Questi evitava accuratamente tutto ciò che poteva dare ansa alla falsa concezione nazionalistica che i Giudei avevano del Messia: cf. Io., 6, 14 s.; tutto ciò che avrebbe facilmente acceso quegl’illusi contro i Romani. Gesù impone il silenzio ai demoni e autorevolmente li scaccia col semplice comando, senza discutere: «Taci; ed esci da quell’uomo» (Mc., 1, 25; ecc.) e il demonio, pieno di odio e di rabbia, s’infuria, urla, ché sa di venire ormai detronizzato, ma deve fuggire. Anche gli Apostoli, nella loro missione, scacciano i demoni (Mc., 6, 13); tale potere è loro conferito dal Risorto (Mc., 16, 15-18). San Paolo a Filippi (At., 16, 16 ss.) libera dal demonio una fanciulla, che al vederlo passare con Sila, esclamava: «Questi sono servi dell’Altissimo, e ci annunziano la via della salvezza».  Anche tra i Giudei c’erano degli esorcisti (At., 19, 27; cf. Mt. 12, 27; Lc., 11, 19 - maggiori importantissime precisazioni in «L’esorcismo e gli esorcisti, da “Racconti miracolosi”» pubblicato sul numero 127 di Sursum Corda del 26 agosto 2018, ndR) ed alcuni di essi presero a scacciare i demoni nel nome di Gesù (Mc., 9, 38).

• L’Inferno è il luogo di castigo degli empi dopo la morte. Già il Precursore accenna alla punizione: «ogni albero che non fa buon frutto sta per essere tagliato e gettato al fuoco» (Lc., 3, 9; cf. Mt., 3, 10; Io., 15, 6) e aggiunge che il Messia brucerà la paglia in un fuoco inestinguibile (Lc., 3, 17; Mt., 3, 12). L’immagine del fuoco come pena dei dannati è ripresa dal Cristo: «Così sarà alla consumazione del secolo: gli angeli usciranno e separeranno i cattivi dai giusti e li getteranno nella fornace di fuoco» (Mt., 13; 47-50; Ap., 1, 15; 9, 2. Stagno di fuoco in Ap., 19, 20 ;20, 9.10.15; 21, 8). Il fuoco è eterno (Mt., 24, 41 s.) ed inevitabile (Lc., 16, 26). Sinonimo e simbolo dell’Inferno è la Geenna (v.) «ove il verme non muore e il fuoco non si spegne» (Mc., 9, 47 s.)... In alcuni testi, l’Inferno è sinonimo di Sheol, indica cioè la dimora dei defunti prima della risurrezione di Gesù (Lc., 16, 23; At., 2, 27.31 = Ps., 16, 10). Così Cristo ha le chiavi della morte e dell’Inferno (Ap., 1, 18; cf. 20, 13; 1 Cor., 15, 55) in quanto vincerà la morte e darà la beatitudine ai soli GIUSTI che sono in attesa nello Sheol (v. Retribuzione).

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, 1955.

Sono detti ossessi o indemoniati gli uomini mossi fisicamente dal demonio che dimora in loro; che sono sotto l’influenza di uno o più spiriti cattivi (Mc. 1, 23-27; Mt. 12, 43 ss.; Lc. 8, 2; 11, 24 ss.). Nel Nuovo Testamento, 23 volte, tali spiriti sono detti impuri; si tratta di impurità morale; lo spirito cattivo spinge gli uomini a commettere atti proibiti dalla legge naturale e dalla legge divina. Nei Vangeli s’incontrano molti indemoniati... Gl’indemoniati figurano, ben distinti, fra i malati colpiti da vari mali, e guariti dal Messia (Mt. 4, 24; 8, 16). L’ossessione viene presentata senza (Mc. 1, 23-28 l’indemoniato nella sinagoga, cf. Lc. 4, 33-36; Mc. 7, 24­-30 l’indemoniata, figlia di una siro-fenicia, cf. Mt. 15, 21-28) o accompagnata a disturbi fisici, mutismo (Mt. 9, 32 ss.), mutismo e cecità (Mc. 3, 22-30; Mt. 12, 22-37), epilessia (Mt. 17, 14-20), o tormenti fisici, con la pazzia (Mt. 8, 28-34; Mc. 5, 1-5, gli ossessi di Gadara). Non è facile discernere se si tratti di malattia anteriore o di disturbo fisico prodotto dall’ossessione; in Mt. 17, 14-20 l’ossessione si manifesta con caratteristiche particolari: paralisi della volontà, privazione dell’uso dell’udito e della parola, idee di suicidio. Gesù prima scaccia il demonio e quindi guarisce completamente l’ossesso (Lc. 9, 42; Mc. 9, 16 s.). Maria di Magdala è una ossessa miracolata (Lc. 8, 2; Mc. 16, 9) e di una forma di ossessione più grave «Gesù aveva scacciato da lei sette demoni», cf. Mt. 12, 43 ss.; Lc. 11, 24 ss.). Il demonio conosce la messianicità e divinità di Gesù e lo fa gridare dagli ossessi, chiaramente (Mc. l, 24-34; 3, 10 ss.; 5, 7; Lc. 4, 4)... Anche gli Apostoli, nella loro missione, scacciano i demoni (Mc. 6, 13); tale potere è loro conferito dal Risorto (Mc. 16, 15-18). Prosegue...

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, 1955, voce del Sac. Armando Rolla, pagg. 159-160.

• Invisibile potenza personale che dirige le forze del male in lotta con i disegni di Dio e a danno dell’uomo. È denominato in ebraico has-satan «l’avversario» (Iob., 1, 6.9.12; 2, 3.4.6.7; I Par., 21, 1; Zach., 3, 1.2), termine che, senza articolo, indica un nemico umano (1 Sam., 29, 4; 2 Sam., 19, 22; ecc.). Nel Invisibile potenza personale che dirige le forze del male in lotta con i disegni di Dio e a danno dell’uomo. È denominato in ebraico has-satan «l’avversario» (Iob., 1, 6.9.12; 2, 3.4.6.7; I Par., 21, 1; Zach., 3, 1.2), termine che, senza articolo, indica un nemico umano (1 Sam., 29, 4; 2 Sam., 19, 22; ecc.). Nel greco dei Settanta ( .... viene chiamato) «accusatore», «calunniatore», che traduce l’ebraico has-satan ed anche sar e sorer «nemico» (in Esth., 7, 4; 8, l); si trovano anche (altri ...) termini con i quali i Greci intendevano soprattutto la divinità che presiede ai destini umani, il genio tutelare inferiore agli dèi, le anime dei morti, ma che i Settanta adoperano per indicare il diavolo, traducendo i nomi ebraici se’irim (Lev., 17, 7; 16, 8.10; II Par., Il, 15; Is. 13, 21; 34, 14); sedim (Deut., 32, 17; Ps.. 106, 37: acc. Sidu); elilim (Ps., 96, 5) Sijjim (Is., 34, 14).

• Responsabile principale della caduta e della conseguente privazione dei doni soprannaturali e preternaturali dei progenitori (Gen., 3, l ss.; cf. Sap., 2, 24; Io., 8, 44; Heb., 2, 14; Apoc., 12, 9; 20, 2), questo invincibile nemico è concepito onnipresente, come spia che accusa gli uomini presso Dio e li tenta per farli condannare (Iob., 1, 6 ss.; I Par., 21, l; Zach., 3, 1 s.). Diavolo della libidine, vinto dalla preghiera, e dalla mortificazione, è detto Asmodeo in Tob., 3, 8; 6, 8 ss.; 12, 3.14. Secondo una opinione rabbinica, seguita da Origene (P.G., 11, 1364) e ripresa dai moderni, Azazel di cui Lev., 16, 8 ss. per il giorno dell’espiazione  sarebbe un diavolo o addirittura il principe dei diavoli. Ma probabilmente Azazel è soltanto un nome dello stesso capro espiatorio, scacciato nel deserto (Clamer).

• Nel Nuovo Testamento il diavolo o Satana (spesso singolare collettivo, per gli angeli ribelli in genere) è il capo degli angeli ribelli che fomenta il male e la perdizione (Ap., 9, 11; 12, 7-9). Il termine (...) sempre al singolare, è usato 39 volte in questo senso tecnico di nemico di Dio e dei suoi fedeli; in tre casi, al plurale, come attributivo «accusatore» (1 Tim., 3, 11; 2 Tim., 3, 3; Tit., 2, 3). Ricorre anche (altre) 36 volte (...con voci affini...) (es. Mt., 8, 31) e (63 volte, 27 al singolare ma 36 al plurale). [Stiamo omettendo le parole in greco, ndR]. In Ap., 12, 9 e 20, 2 il diavolo o Satana è identificato al dragone. È denominato anche il «tentatore» (Mt., 4, 3); il «malvagio» (At., 19, 12; I Io., 2, 13); lo «spirito immondo» (Mt., 12, 43); in Ap., 12, 10 è qualificato come «l’accusatore dei fratelli nostri (i cristiani) che li accusa dinanzi a Dio giorno e notte»; e in rapporto al giudizio che ci attende è detto anche «l’avversario in tribunale» (I Pt., 5, 8).

• Il diavolo è un angelo peccatore e punito. L’antica tradizione religiosa ebraica, relativa al peccato degli angeli, è riportata da San Pietro (2 Pt., 2, 4) e da San Giuda (1, 6) ed accennata da Cristo; «Egli era omicida fin dal principio e non perseverò nella verità, perché la verità non è in lui» (Io., 8, 44) e da San Giovanni «fin dal principio il diavolo pecca» (I Io., 3, 8). Si dà la preferenza al peccato di superbia, più consono alla natura angelica spirituale. Confinati negli abissi tenebrosi (2 Pt., 2, 4; Iud., l, 6) e puniti col fuoco eterno per loro creato (Mt., 25, 41), questi angeli decaduti, assai numerosi (Mc., 5, 9; cf. Lc., 8, 30), hanno un potere limitato sugli uomini (I Pt., 5, 8) fino alla condanna nel giudizio finale (2 Pt., 2, 4; Iud., 1, 6).

• Come «capo di questo mondo» (Io., 12, 31; 14, 30; 16, 11), «dio di questo secolo» (2 Cor., 4, 4) e «padrone» (Mt., 4, 9; Lc., 4, 6) manifesta la sua potenza nelle tenebre dell’idolatria (At., 26, 18; Col., l, 13). La lotta diabolica è portata anzitutto contro Cristo; dopo le iniziali tentazioni a carattere messianico, lo avversò fino alla morte, suggerendo il tradimento a Giuda Iscariota (Io., 13, 2; cf. 6, 71) e pigliando saldo possesso del suo spirito (Lc., 22, 3; Io., 13, 27; cf. Lc., 22, 53). La lotta contro la Chiesa di Cristo è tratteggiata nelle parabole del seminatore e della zizzania (Mt., 13, 19.25.39; Mc., 4, 15; Lc., 8, 12).

• Dopo Cristo, sono tentati i cristiani (At., 5, 3), con grande astuzia (I Cor., 7, 5; 2 Cor., 2, 11; I Ts., 3, 5; ecc.), dal diavolo che si trasforma in angelo di luce (2 Cor., 11, 14), promotore di dottrine false (I Tim., 4, l). Soprattutto i propagatori del cristianesimo sono oggetto dell’odio diabolico (Lc., 22, 31; 2 Cor., 12, 7; I Ts., 2, 18). Cristo però inferse al diavolo la prima grave sconfitta, quando realizzò la profezia genesiaca (Gen., 3, 15; Luc., 10; 18; Io., 12, 31; 14, 30; 16, 11; I Io., 3, 8), con la sua morte distrusse il dominatore della morte (Hebr., 2, 14) e liberò i soggiogati dal terrore della morte (Hebr., 2, 15; Col., 2, 14 s.). Ma poiché la sconfitta definitiva avverrà solo alla fine del mondo, quotidiana deve essere la resistenza dei cristiani ai suoi attacchi (I Pt., 5, -8.9), con «intera l’armatura» soprannaturale (Eph., 6, 16; 2 Cor., 12, 7 ss.; Rom., 16, 20). Né infrequente sarà il successo del diavolo; al tempo di Cristo vi sono seguaci fedeli del diavolo (Io., 8, 41.44); nell’età apostolica l’incestuoso di Corinto e gli apostati Imeneo ed Alessandro sono abbandonati in punizione in potere di Satana (I Cor., 5, 5; I Tim., l, 20). Fino al giorno del giudizio vi sarà opposizione fra i «figli di Dio» ed «i figli del diavolo» (Io., 8, 44.47; I Io., 3, 8.10), i quali compiono le «opere del diavolo» (At., 13, 10) che si riassumono nell’impostura o seduzione (Io., 8, 44; I Tim., 4, 2; Ap., 12, 9; 20, 9) con cui alla verità e alla giustizia viene sostituito il peccato (Rom., l, 25 ss.; Iac., 5, 19).

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, 1955, voce del Sac. Armando Rolla, pagg. 159-160.

• La parte che Dio ha nella salvezza eterna degli uomini. Essa è espressa formalmente da San Paolo in Rom. 8, 28 ss. «Noi sappiamo che in tutte le cose Dio collabora al bene di quelli che l’amano, (cioè) di quelli che sono i suoi eletti per il suo libero disegno. Perché quelli che Egli ha prescelti con amore (“pre-amati”; conoscere con provvida cura), li ha anche predestinati a riprodurre l’immagine del suo Figliuolo, perché questi divenga così il primogenito di una moltitudine di fratelli; quelli che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati».

• Quelli che amano Dio non formano tra i cristiani una categoria speciale. Tutti i cristiani di Roma, ai quali Paolo scrive, sono di diritto nel Cristo. Lo stesso vale per «quelli che sono stati chiamati secondo il disegno» (di Dio; cf. Eph., 1, 11; 3, 11). San Paolo non intende indicare una categoria a parte nella comunità cristiana. Egli vuole ricordare ai fedeli, a tutti i fedeli, che la loro vocazione alla fede ha avuto come principio il disegno divino di conferire loro questo beneficio soprannaturale; al punto di partenza della loro conversione al cristianesimo, ci fu da parte di Dio una libera iniziativa di grazia.

• La distinzione di due classi nei chiamati al Cristianesimo, gli uni predestinati alla gloria e gli altri no, ammessa da Sant’Agostino, non ha alcun fondamento nel testo ed è contraria a tutto il contesto; ed inoltre, esula affatto da tutto il resto del Nuovo Testamento.

• Per San Paolo, il chiamato è ogni battezzato, ogni fedele che ha abbracciato il cristianesimo. E in un’esortazione nella quale l’Apostolo si propone di dimostrare che l’ultimo effetto della Redenzione (glorificazione del nostro corpo, con la risurrezione) è sicuro, sarebbe proprio incoraggiarli dicendo: «Abbiate tutti confidenza, perché, alcuni tra voi sono predestinati»! È davvero impossibile argomentare con minor logica!

• I vv. 29 s. spiegano il precedente: ci mostrano la concatenazione degli atti divini che devono condurre la comunità dei cristiani alla vita gloriosa, nella conformità al Cristo risorto.

• Non si tratta di semplice prescienza «quos prescivit»; ma «conoscenza amorosa», già benevola e benefattrice. Il fine del piano divino è che i battezzati abbiano anch’essi il corpo glorioso, come quello di Gesù risorto. È questa l’immagine del Figlio, di cui qui parla San Paolo. Il Cristo ha preso il nostro corpo affinché possiamo partecipare alla gloria del suo corpo risuscitato; ed egli sia come il primogenito (cf. Col., 1, 15) di una moltitudine di fratelli. Dunque, conformi al corpo glorioso del Cristo.

• Una catena di grazie è pronta, che va dalla chiamata, alla giustificazione, alla glorificazione anche del nostro corpo. Da parte di Dio, tutto è pronto; la forma verbale, passato remoto, è un’anticipazione di certezza.

• Spetta all’uomo non rompere tale catena di grazie col peccato; ma qui l’argomento della cooperazione umana esulava dal contesto; San Paolo vi ritorna molto spesso, qui (Rom.) nella parte morale (cc. 12-15), e già nel c. 6; e nelle altre lettere (cf. 1 Cor., 9-10; Gal., 5, 16.6, 10 ecc.).

• Allo stesso modo, il termine «eletti», spesso adoperato nel Nuovo Testamento (Rom., 8, 33; Col., 3, 12 ecc.); 1 Pt., 1, 1; 2, 4.6.9 ecc., sta per tutti i battezzati; mai esprime una classe a parte, tra i fedeli. Gli Apostoli chiamano eletti tutti i fedeli cui scrivono; sono gli uomini che hanno ricevuto la grazia della fede.

• Gli stessi eletti sono detti «chiamati»; vengono ripresi; possono decadere dallo stato di grazia (I Cor., 9-10; Rom., 11, 20-23); devono rendere stabile con le buone opere la loro elezione (2 Pt., 1, 10). Gesù esorta tutti i suoi discepoli a pregare incessantemente e a non disertare (Lc., 18, 7); gli eletti, sono tutti i suoi discepoli (Lc., 18, 1-7).

• Gli unici passi che sembrerebbero fondare una distinzione tra chiamati ed eletti; e identificare questi con una classe speciale di fedeli: «i predestinati infallibilmente alla salvezza», sarebbero Mt., 22, 14; 24, 22. «Molti i chiamati, ma pochi gli eletti». In realtà, gli eletti sono quelli che effettivamente partecipano al banchetto; chiamati quelli che Dio avrebbe voluto fossero partecipi al banchetto, quelli ai quali il pranzo era stato preparato, cioè il popolo eletto, tutti gl’Israeliti.

• L’espressione non è da staccare dal contesto, Gesù dice di «avere invitato tutti i Giudei, ma pochi hanno risposto alla sua parola»; è la situazione storica creatasi di fronte alla missione del Salvatore (Brunec).

• Come a torto, viene citato Rom., 9-11. In questi cc., San Paolo dimostra come l’essere Israele fuori della salvezza non costituisca un fallimento, sia pure parziale, del disegno divino, espresso nell’alleanza con Abramo.

• L’è che Dio non ha mai legato la salvezza a una questione razziale, a tutta la discendenza carnale. E questo dimostra, citando i casi del solo Isacco, prescelto come erede della promessa, con l’esclusione degli altri figli di Abramo.

• Dio liberamente sceglieva Isacco, quindi Giacobbe ecc. Ma sia Giacobbe che Esaù non vengono considerati come persone, quanto come capi e simboli dei due popoli: israelita e edomita; Israele doveva i suoi privilegi unicamente alla libera e misericordiosa scelta di Iahweh. In tal modo, il fatto razziale era escluso. La questione della salvezza personale qui esula affatto: si tratta della partecipazione all’Evangelo; come se ci si chiedesse, come mai Iddio permette che ad alcuni popoli della terra il Vangelo non sia ancora predicato, mentre altri, forse più lontani ecc., hanno già i missionari.

• Concludendo, due concetti sono nettamente affermati: il disegno divino di salvezza è frutto esclusivo della sua misericordia; Dio ci previene con la sua grazia, sempre, dall’inizio al completamento glorioso della nostra vita spirituale. E questo risponde al carattere universale della Redenzione (Mt., 28, 19) e alla volontà divina chiaramente espressa da San Paolo: «Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità» (I Tim., 2, 4). 

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, Imprimatur 1955.

• Rito di iniziazione alla vita cristiana, mediante l’immersione-lavacro nell’acqua naturale. Nel Nuovo Testamento manca un’esposizione sistematica su tale sacramento; anzi non si descrive neppure il momento preciso della sua istituzione da parte di Gesù Cristo. Però, è insegnata esplicitamente la necessità di tale sacramento e sono svolti occasionalmente non pochi aspetti teologici su la sua efficacia.

• Non sappiamo quando Gesù l’istituì, ma la sua vita pubblica cominciò dopo il battesimo ricevuto da Giovanni (Mc. l, 9-13), seguito poco dopo da un discorso sulla necessità di una «rinascita» spirituale, mediante l’acqua e lo Spirito Santo (Io. 3, 3-6), e terminò col comando di battezzare tutti i futuri credenti: «Andate ed istruite tutte le genti, battezzandole nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28, 19). È certo che il battesimo di Giovanni (cf. Mt. 3, 11; Mc. 1, 8; Act. l, 5) era un bagno puramente simbolico per sanzionare la risoluzione di un risveglio morale; rito che doveva eccitare ed esprimere i sensi di un sincero pentimento interno. Si discute sul valore del battesimo amministrato da Gesù durante la sua vita pubblica (Io. 3, 26). Alcuni non lo distinguono da quello di Giovanni, mentre altri lo ritengono già un vero sacramento capace di conferire la grazia.

• Negli Atti degli Apostoli abbiamo la documentazione pratica nella necessità del battesimo. Esso viene amministrato ai primi credenti nel giorno di Pentecoste (Act. 2, 41) e quindi si ricorda diverse volte il suo conferimento anche per il tempo successivo (cf. ibid. 8, 16.38; 9, 18; 16, 15.33; 19, 5). San Pietro pone espressamente come condizione per ottenere la salvezza il «ravvedimento» ed il battesimo (ibid. 2, 38).

• Talvolta negli Atti degli Apostoli si parla di battesimo conferito nel nome di Gesù Cristo. Insieme a qualche testo patristico (particolarmente di Eusebio di Cesarea), l’espressione è stata sfruttata quasi che riproducesse od accennasse ad una formula battesimale diversa da quella trinitaria prescritta in Mt. 28, 19 e mantenuta inalterata dalla Chiesa lungo i secoli. In realtà il riferimento al Cristo non è altro che un modo per distinguere il battesimo da riti analoghi praticati presso taluni movimenti religiosi ed in particolare da quello simbolico di Giovanni. Negli Atti 8, 38; 10, 47, parimenti, si insiste nel rilevare che materia del sacramento è l’acqua, termine usato metonimicamente da San Pietro anche per indicare il battesimo (ibid. 10, 47). Talvolta il conferimento del battesimo è accompagnato da manifestazioni carismatiche (in genere: glossolalia), ma in nessun testo si afferma una stretta e necessaria connessione fra i due fenomeni.

• [Non va confusa la glossolalia - pronuncia di una o più lingue sconosciute a chi parla - con le teatrali mistificazioni, talvolta dal carattere isterico, abituali presso moderni gruppi di sedicenti carismatici, i quali, peraltro, non potrebbero mai essere confermati nei loro numerosi errori dottrinali dalle manifestazioni carismatiche. Secondo la teologia, il «dono delle lingue» fu concesso agli Apostoli, che dovevano evangelizzare i popoli della terra, per due motivi, e non esiste più questa necessità. Motivo uno: «perché ne avevano bisogno per farsi comprendere»; motivo due: «perché come la confusione delle lingue fu segno dell’allontanamento del mondo da Dio, così il dono delle lingue doveva essere il segno del riavvicinamento del mondo a Dio». Ecco perché, scrive sant’Agostino, «pur ricevendosi anche oggi lo Spirito Santo, nessuno parla più le lingue di tutte le genti; perché ormai tutte codeste lingue le parla la Chiesa, dalla quale chi è escluso non riceve lo Spirito Santo» (cf. San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 176, a. 1 ad 3), ndR].

• Primo effetto del sacramento istituito da Gesù è precisamente la remissione dei peccati (cf. I Cor 6, 11; Eph. 5, 26; Tit. 3, 5; Hebr. 10, 22). È il passaggio dal regno del male alla sequela del Cristo, determinato dal recupero dell’innocenza (cf. Act. 2, 38; 10, 46 s.; 26, 18). San Giovanni [Apostolo] preferisce parlare [nel suo Vangelo] di «rinascita» e di acqua rigeneratrice: «Se uno non sarà rinato per acqua e per Spirito non può entrare nel Regno di Dio» (3, 5; cf. I Io. 5. 6.8). Si tratta di un rito esterno necessario, ma la sua efficacia è inconcepibile, nell’adulto, se si prescinde dalla fede, che deve essere già nell’animo del convertito. Per questo vediamo come San Paolo usi la libertà di attribuire indifferentemente al battesimo ed alla fede i medesimi effetti (cf. Gal. 2, 19 s.; 3, 26 s.; Col. 2, 10-13; Rom. 6, 3 ss.; Eph. 2, 5-8). L’insegnamento della necessità del battesimo come mezzo indispensabile di salvezza è accentuato nel Vangelo di Giovanni (3, 5) e nella Lettera di Pietro, ove si sfrutta la tipologia tra il battesimo e l’acqua del diluvio (I Pt. 3, 20 s.).

• San Paolo insiste sull’unione al Corpo Mistico od incorporazione al Cristo, prodotta dal battesimo. Egli rileva volentieri il metodo ordinario di battezzare per immersione per segnalarvi un riferimento simbolico alla morte ed alla risurrezione del Cristo (cf. Rom. 6, 3 ss.). Si ha la morte mistica del cristiano (Rom. 6, 3-11; Col. 2, 12.20; 3, 3) e quindi la risurrezione o la nascita ad una nuova vita (Rom. 6, 4; II Cor. 3, 18; Col. 3, 3), in cui partecipa alla santità ed incorruttibilità divina (Rom. 6, 2-14; Col. 3, 9 s.). È la morte al peccato, alla concupiscenza (Rom. 6, 6; cf. Eph. 4, 22 ss.; Col. 3, 9) ed in modo particolare alla Legge mosaica (Rom. 7, 6; Gal. 2, 19). Dal lato positivo si ha la filiazione adottiva e la vita nello Spirito (Gal. 4, 5 s.; Rom. 5, 5; II Cor. 3, 3).

• La necessità fondamentale del battesimo fece sì che presto nell’antichità si determinassero i punti non precisati nella Bibbia (battesimo per infusione, dei bambini, degli eretici ecc.); per questo possiamo affermare che la dottrina sul battesimo è stata la parte della Teologia fissata per prima e con maggiore esattezza e completezza. I Cor. 15, 29 va così tradotto: «Altrimenti (se i morti non risorgono), che otterranno quelli che sono battezzati? Per i morti? (cioè sono essi battezzati per essere annoverati tra i morti che mai risusciteranno ?). In vero, se i morti non risuscitano, perché farsi battezzare? Per chi? (per essere poi nel numero di coloro che muoiono per sempre?).

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, Imprimatur 1955.

• Precursore di Gesù, per mezzo della pubblica predicazione del prossimo avvento del regno messianico, accompagnata dall’amministrazione di un simbolico battesimo, donde il nome di «battezzatore» (Mt. 3, 1). I Vangeli riferiscono la sua nascita tra circostanze miracolose (Lc. 1, 5-24.41-44. 57-79), la vita nel deserto (Lc. 1, 80), la predicazione, intimamente connessa con l’inizio del ministero di Gesù (Lc. 3 e parall.; Io. 1, 3; Lc. 7, 18-35) e la sua morte (Mc. 6, 14-29 e parall.). Figlio di Zaccaria ed Elisabetta, ambedue di stirpe sacerdotale, è concesso da Dio, come annuncia l’angelo Gabriele, ai due coniugi già in età avanzata: si chiamerà Giovanni, Iehohanan, ossia «Iahweh è propizio»; la sua missione rassomiglierà «nello spirito e nella potenza» (cf. I Reg. 17-20) a quella di Elia, come era predetto in Mal. 3, 23 segg. (cf. Lc. 1, 17), per preparare un «popolo perfetto» all’apparizione del Messia. In occasione della «visitazione» di Maria, madre di Gesù, alla parente Elisabetta, a tre mesi dalla nascita di Giovanni Battista, avvenuta «in una città di Giuda» (variamente identificata: forse ’Ain Kārim, poco a ovest di Gerusalemme), il nascituro manifesta la sua presenza «sobbalzando» di gioia nel seno materno. [L’Autore intende dire: tre mesi prima che Giovanni nascesse, ndR].

• Secondo una tradizione, ignota ai Vangeli «teneris sub annis» (Inno Ut queant) cominciò ad abitare «nei deserti» (Lc. 1,80) - in realtà la cronologia di questo fatto è ignota -, conducendo la vita austera di nazireo nel vestito e nell’alimentazione (cavallette; miele selvatico, tuttora utilizzato dai beduini). Nell’anno 150 dell’imperatore Tiberio (27-28 d. C.) iniziò la sua missione (Lc. 3), in cui invitava a preparare le vie del Signore (da Is. 40, 3 ss.), alla conversione (cambiamento delle disposizioni dell’anima) e all’attesa di uno più forte di lui. Si rivolse alle diverse classi sociali, attaccando l’ipocrisia dei Farisei, negando che fosse sufficiente alla salvezza essere figli di Abramo, senza «frutti corrispondenti alla conversione», destando entusiasmo nel popolo, che accorreva sempre più numeroso a sentirlo in un clima di crescente ansia per l’attesa messianica. In una inchiesta fatta dalle autorità religiose per mezzo di un’ambasciata di sacerdoti, leviti e Farisei, Giovanni Battista negò di essere il Messia (Io. 1, 19.28), affermò invece la superiorità di Gesù, «agnello di Dio», che toglie il peccato del mondo.

• Il suo battesimo non era che «di acqua», puro segno simbolico; quello di Gesù era «nello Spirito Santo», un segno operativo di santificazione per grazia divina. Al battesimo di Giovanni volle partecipare anche Gesù; la grandiosa manifestazione trinitaria di quella circostanza fu come una solenne investitura di Gesù per la sua prossima missione messianica, che difatti Giovanni Battista conobbe ufficialmente in quell’occasione. Da quel momento sempre più Giovanni si ritira (cf. Io. 3, 22) di fronte all’affermarsi del «più forte», al cui seguito anzi si mettono alcuni già stati «discepoli» del Precursore: Andrea, Simone, Giovanni, Filippo, Natanaele. Però lo spirito di Elia non cessò di animare l’infuocata parola del Battista, il quale rimproverò pubblicamente l’incestuosa e adultera unione di Erode Antipa con la nipote e cognata Erodiade. Arrestato per questo, fu tradotto in carcere a Macheronte sulla sponda orientale del Mar Morto. Di qui ancora sollecitò da Gesù, a conferma dei suoi discepoli, una pubblica dichiarazione del suo vero essere: e Gesù lo fece, soggiungendo un grandioso elogio del suo Precursore (Lc. 7, 18-23).

• Il grande Precursore di Cristo diede la vita per la sua missione: in occasione di un banchetto della corte a Macheronte, la figlia di Erodiade, che con le sue danze aveva destato gli entusiasmi di Erode, istigata dalla madre ne chiese e ottenne in premio la testa. Nel piano dello sviluppo storico del Messianismo la personalità di Giovanni Battista è tra le più singolari: è l’ultimo profeta e il primo apostolo. Precede il Messia e gli rende testimonianza (cf. l’importanza di questo concetto nel prologo del IV Vangelo), disponendo il popolo ad accoglierlo; quando questi è giunto, entra nell’ombra e si dilegua con l’aureola di martire, illuminata dalla parola d’elogio che poco tempo prima Gesù aveva proferito: «Il più grande tra i nati di donna» (Mc. 11,12). 

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, Imprimatur 1955.

Nobile giudeo, appartenente al Sinedrio. È celebre il suo incontro notturno con Gesù. L’ora scelta rivela la sua paura dei Giudei; mentre le parole che egli pronunzia manifestano la profonda impressione prodottagli da Gesù. Nicodemo appare un fariseo osservante, retto, alieno dalla mentalità meschina di molti Farisei suoi contemporanei, ma influenzato dalla concezione corrente di un Messia nazionalista. Il divin Redentore nel colloquio confuta i punti di tale erronea concezione: il regno di Dio è di natura spirituale, e si richiede pertanto, per entrarvi, una rinascita spirituale; non è un privilegio della razza giudaica; il Messia compirà la sua missione soffrendo e morendo crocifisso. Nicodemo è detto «capo» o «comandante» dei Giudei, senza dubbio nel significato di nobile o di persona rispettabile. Quale membro dell’aristocrazia faceva parte del Sinedrio (Io., 7, 50). Egli era noto anche per la sua dottrina; era «maestro in Israele» (ibid., 3, 10). Rimase simpatizzante ma non osò divenire apertamente discepolo di Gesù. Più tardi, però, quando si discuterà fra Farisei e sacerdoti sul modo e sulle possibilità di eliminare Gesù, Nicodemo ha il coraggio di pronunziare una timida difesa: «Forse che la nostra legge condanna un uomo senza che prima l’interroghi e conosca che cosa fa?». Bastò per adontare i suoi colleghi, che ribatterono: «Forse che anche tu sei della Galilea? Informati ed impara che non sorge profeta dalla Galilea» (Io. 7, 50 s.). Dopo la morte di Gesù, Nicodemo aiuta Giuseppe d’Arimatea a seppellirne il cadavere. Egli vi contribuì con 100 libbre (= 32 kg. ca.) di mirra e di aloe (ibid., 19, 39 s.). Quanto si legge negli Apocrifi è incerto. Esiste perfino un Vangelo di Nicodemo od Atti di Pilato e Discesa del Cristo agli inferi. Secondo una tradizione Nicodemo sarebbe convertito al cristianesimo. Il suo nome si legge nel Martirologio Romano (3 agosto), perché il suo corpo sarebbe stato trovato insieme a quello di Santo Stefano (cf. Epistula Luciani ad omnem Ecclesiam; PL 41, 807-15).

Dal Dizionario biblico, Mons. Francesco Spadafora - pace all’anima sua! - Studium, Roma, 1955.

Oppositore del Cristo e del Suo regno. In tutta la letteratura canonica e apocrifica, il termine ricorre soltanto nelle lettere di San Giovanni. Nel suo discorso sulla fine di Gerusalemme, Gesù ammonisce i discepoli di stare attenti agli inganni, con cui pseudo­-cristi e pseudo-profeti, cercheranno di attrarli: 1) durante il lungo periodo di persecuzione e di tribolazione che precederà l’inizio dei dolori (Mt., 24, 5-11; Mc., 13, 6; Lc., 22, 8); durante la grande tormenta (l’assedio) che precederà immediatamente la fine (Mt., 24, 23 ss.; Mc., 13, 21 ss.).

• Manifestazioni distinte della cui realizzazione parla lo storico Giuseppe (Bell., II, 13-, 4-5 prima della rivolta e dello assedio): «Uomini ingannatori e impostori, che sotto apparenza di ispirazione operavano innovazioni, inducevano la folla ad atti di fanatismo...». E (VI, 5, 2-3 durante l’assedio): «Molti erano allora i profeti che, subornati dai tiranni riguardo al popolo, andavano intimando d’aspettare il soccorso da parte di Dio... Il misero popolo fu allora illuso... da quei che parlavano falsamente in nome di Dio» (trad. G. Ricciotti: La Guerra Giudaica).

• In 2Ts., 2, 3-12 la descrizione è particolareggiata. «Che nessuno v’inganni (quasi sia imminente il giorno del Signore). Bisogna prima che accada l’apostasia, che si riveli l’iniquo, il perduto (o votato alla perdizione), l’avversario, e altezzoso spregiatore di Dio e del Tempio (Dan., 11, 36 ss.), fino ad insediarsi nel Tempio di Dio e proclamarsi Dio (Ez., 28, 2) = Mt., 24, 15; Mc., 13, 14. Non ricordate che, stando tra voi, ve lo dicevo? E voi conoscete ciò che attualmente lo trattiene, sicché si manifesti a suo tempo. Ché questo mistero di perversità è già all’opera, solo che c’è chi lo trattiene, finché non sarà messo da parte. Allora il perverso si manifesterà; ma il Signore lo distruggerà col soffio della sua bocca e annienterà con lo splendore della sua venuta (Mt., 24, 29 s.; Mc., 13, 24 ss.; Lc., 22, 25 ss.; parusia Mt., 10, 23; 26, 64; Mc., 14, 61 s.; Lc., 22, 68 s.); manifestazione accompagnata, per la potenza di Satana, da ogni sorta di miracoli, segni, prodigi menzogneri (Mt., 24, 23 ss.; Mc., 13, 21 ss.), e da tutte le seduzioni del male, per quelli che si perdono, perché non hanno accolto l’amore della verità che li avrebbe salvati». Sono i Giudei (v. Tessalonicesi, lettera) che hanno rigettato l’evangelo; giusta punizione, conclude San Paolo, per questo loro rifiuto.

• San Paolo ripiglia per i Tessalonicesi, perseguitati ferocemente dai Giudei, la profezia di Gesù sulla fine di Gerusalemme, che è di castigo per il giudaismo persecutore e di consolazione per la Chiesa (Mt., 24; A. Plummer, J. B. Orchard, D. Buzy). Non c’è da sbagliarsi circa il tempo. Il tremendo castigo ha come segni precursori: 1) L’apostasia predetta da Gesù (K. Staab, p. 42) in Lc., 18, 8; Mt., 24, 12 s.; realizzatasi nella Chiesa di Palestina (Hebr., 4, 11; 6, 4 ss.; 10, 26-31; 12, 25; 2). La libera manifestazione dell’odio e della violenza da parte del Giudaismo, avversario di Cristo e del Suo regno (1Ts., 2, 15 s.), nella quale si verificherà la profanazione del Tempio col disprezzo di ogni norma divina ed umana: i termini sono quelli di Dan., 11, 36 s. per quanto riguarda la profanazione del Tempio (v. Antioco Epifane) e di Ez., 28, 2 per il sentimento di folle fiducia nell’effimero trionfo.

• La profanazione del Tempio è il segno inconfondibile dato da Gesù per la fine di Gerusalemme: «Quando vedrete la desolante abominazione (Dan., 9, 17; 12, 11), predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo...» (Mt., 24, 15; Mc., 13, 14). Gli zeloti, i loro capi, s’insediarono nel Tempio (Giuseppe, Bell., V, 1-38, 98-105, 562-66), compiendovi stragi.

• Questo mistero di odio e di perversità operava già come gli era possibile e persecuzioni violente avevano fatto le loro vittime. C’era Roma con il suo potere a tenere a rispetto l’odio frenetico della sinagoga. Dal 44 al 62 d. C., ad esempio, si ebbe una tregua di circa 20 anni, procurata senza dubbio dall’amministrazione romana che riprese il governo della Giudea (G. Lebreton - G. Zeiller, Storia della Chiesa, trad. it., I, Torino 1937, p. 209, cf. p. 242). Quest’odio ebbe la sua prima esplosione subito dopo la ribellione a Roma (66 d. C.), con la negazione del sacrificio per l’imperatore, la fuga dell’iniquo procuratore Gessio Floro e la sconfitta del legato di Siria Cestio Gallo. Il rappresentante dell’impero fu così messo da parte. Ma si era alla fine predetta da Gesù nei passi citati.

• O. Cullmann (pp. 212 ss.) riconosce che tale interpretazione (l’impero romano e il suo rappresentante) è la sola che rispetti l’uso e il passaggio del neutro (del termine) che indica la funzione impersonale dell’ostacolo, al maschile = l’agente personale di tale funzione. Essa inoltre è la più antica; è l’interpretazione dei Padri, ripresa, sia pure con ritocchi e variazioni, da molti esegeti. Vosté parla di tradizione apostolica.

• Padri però proiettavano sia Mt., 24 (almeno dal v. 21 in poi) sia II Thess., 2 alla fine del mondo; e consideravano la manifestazione dell’anticristo come il segno della seconda ed ultima venuta fisica di Gesù. Perciò la facile obiezione: l’impero romano è sparito e l’anticristo non è apparso. Obiezione che ha disorientato gli esegeti spingendoli a tentare tante nuove vie, inutilmente, fino a farli concludere che II Thess., 2 è inintelligibile. Tutto invece è chiaro se ci si attiene al testo e al contesto (v. Tessalonicesi) e ai riconosciuti e frequenti riferimenti letterali con la profezia di Gesù sulla fine di Gerusalemme (Mt., 24; cf. C. Spicq, in RScPhTh, 36 [1952] 166, nota 53).

• In I-II Io. l’apostolo ammonisce ripetutamente i fedeli di guardarsi dagli eretici, da tempo sorti nella Chiesa primitiva, i quali si ergevano contro il mistero di Gesù vero Dio e vero uomo. Questi eretici, San Giovanni chiama anticristi. «Figlioli, è l’ultima ora (l’era ultima e definitiva è quella iniziata con la venuta di Gesù, in opposizione ai periodi di tempo che l’han preceduta e preparata: Is., 2, 2; 1Cor., 10, 11; Gal., 4, 1-5; Hebr., 9, 26); udiste che l’anticristo viene; ebbene: ecco che già finora molti anticristi sono apparsi. Uscirono da noi, ma non erano dei nostri... Chi è il menzognero, se non chi nega che Gesù è il Cristo? Questi è l’anticristo; chi nega il Padre e il Figlio. Chiunque nega il Figlio non possiede neppure il Padre...» (1Io., 2, 18-22; ancora 4, 3). «Molti seduttori fecero irruzione nel mondo, che non confessano Gesù, come il Cristo incarnato. Questi (che ciò sostiene) è seduttore e anticristo» ( II Io., 7).

• Infine, l’Apocalisse (v.) svolge il quadro profetico della lotta fra Cristo e le potenze del male (Satana = il Dragone, con i suoi satelliti). La profezia di Gesù (Mt., 24) sostanzialmente afferma: nella lotta violenta, sanguinosa e senza quartiere che il giudaismo condurrà contro la Chiesa nascente, non questa soccomberà, ma il primo. Quello era però un episodio; l’Apocalisse con lo sguardo nell’indefinito futuro, afferma che la persecuzione accompagnerà sempre la Chiesa, che ne uscirà sempre vincitrice e purificata. Non parla pertanto né di un anticristo individuo o collettività umana determinati, né di una sua azione da localizzarsi ad un dato momento, o alla fine del mondo. Si tratta di tutte le manifestazioni del male, in tutto il corso della storia della Chiesa quaggiù.

• Appare pertanto non fondato sui testi biblici, il tema dell’anticristo escatologico, cioè di un individuo (prevalentemente gli antichi, e B. Rigaux tra i moderni) o di un insieme di persone (F. M. Allo, D. Buzy, i moderni), che deve precedere immediatamente il ritorno fisico di Gesù alla fine del mondo. L’indebita fusione dei vari accenni su esposti e riguardanti temi distinti, in un unico soggetto ha facilitato tale concezione. Chi nega Gesù e si oppone alla sua Chiesa, questi è l’anticristo; si tratti di individui o di collettività (Stato); tutti gli eretici e tutti i persecutori del passato, del presente e del futuro sono anticristi (= San Giovanni nelle Lettere e nell’Apocalisse). San Matteo e II Thess. si riferiscono al nemico più feroce della Chiesa primitiva: il giudaismo; ne predicono le persecuzioni, l’effimero trionfo, il tremendo castigo.

[Una interessante esegesi del dotto Mons. Francesco Spadafora. Tratta dal Dizionario biblico, Roma, 19554, con Imprimatur].

Personaggi venuti dall’Oriente a Betlemme, guidati da una stella, per adorare il Re dei Giudei (Mt. 2, 1-12). Dopo gli studi del P. G. Messina è indubbio il legame fra i Magi ed il riformatore della religione iranica, Zarathustra. Magi = partecipi del dono (nell’Avesta: magavan, moghu), e il dono è la dottrina di Zarathustra; cioè seguaci o discepoli di Zarathustra.

• La tradizione letteraria che descrive i Magi quali astrologhi ed indovini è di epoca posteriore e deve la sua origine soprattutto a Bolos di Mendes, fondatore della scuola neo-pitagorica di Alessandria, intesa a studiare le attività magiche delle pietre e delle piante. Da allora i Magi furono confusi con i Caldei di Babilonia e con i maghi egiziani, e perciò considerati stregoni e fattucchieri. Tale concezione ebbe enorme credito presso il popolo dal II sec. a. C. fino al tardo Medioevo. Per i tempi del Nuovo Testamento, cf. At. 13, 6 ss. (Il mago Elima-Barjesu) e 8, 9 (Simone il mago ...). Si ebbero però vivaci proteste dal sec. III a. C. al sec. III d. C. presso scrittori bene informati sui Magi e la loro dottrina, differenziandoli nettamente dai Caldei (Dinone, Dione Crisostomo, Porfirio). La maggioranza degli scrittori cristiani, soprattutto gli Orientali e tra questi i Siri (che erano a contatto più immediato con i Magi) ce li presentano come seguaci di Zarathustra, in opposizione ai Caldei ed ai sacerdoti egiziani.

• Le testimonianze storiche e letterarie ora esposte ci portano a cercare la patria dei Magi in Persia, cui può benissimo riferirsi il termine generico «Oriente» (Mt. 2, 1; cf. Is. 41, 2). Alcuni Padri pensarono all’Arabia, perché interpretavano alcuni testi del Vecchio Testamento in connessione con la venuta dei Magi (Ps. 72, 10.15; Is. 8, 4). Ad essa pensano, come identificazione geograficamente più facile, anche molti moderni (Lagrange, Lebreton, Prat). Oggi sul carattere miracoloso della stella, considerata come una meteora prodotta direttamente da Dio, è quasi unanime l’accordo degli esegeti. I tentativi di Keplero che vi vedeva la congiunzione di Giove con Saturno (7 a. C.) o di altri che vi hanno riconosciuta la cometa di Halley (12 a. C.) non possono adattarsi al testo.

• L’idea che ha preparato questi Magi a ricercare e a riconoscere il Salvatore, sarà stata quella del «soccorritore». Nell’Avesta (v. Persiani) ricorre l’idea di uno (o più) soccorritore «Saushjant» che nelle Gāthās è un personaggio storico, presente e reale, mentre nell’Avesta posteriore è prevalentemente escatologico; negli scritti medio-persiani la sua attività è inquadrata nel sistema cronologico dei 4 trimillenni in cui è divisa l’età del mondo. Scopo del suo apparire è il trionfo definitivo del Bene, cioè del regno di Ahura-Mazdah contro quello di Anra-Mainju. Suo nome è Astvat-ereta «verità incarnata»: i lineamenti del Sau­shjant sono ricalcati su quelli dei mitici eroi persiani; Un tratto mitico, totalmente assente nelle Gāthās, è la sua nascita da una donzella rimasta incinta dal seme di Zarathustra custodito dai regni nel lago Kajanseh dove la fanciulla andrà a bagnarsi. Dalla dottrina cronologica medio-persiana si sa che i soccorritori appariranno alla fine di ogni millennio del quarto periodo del mondo e che in primo apparirà mille anni dopo Zarathustra; se quest’ultimo è vissuto, secondo la notizia più antica di Xantos, verso il 1082 a. C., il Saushjant doveva aspettarsi verso il principio dell’era nostra. Tali credenze erano note anche ai cristiani (soprattutto siri), i quali, pur conoscendo che Zarathustra non apparteneva al popolo giudaico, fanno di lui un profeta precristiano e messianico. Il ravvicinamento del Saushjant con il Messia ebraico era già stato iniziato da scrittori giudei in contatto dei Persiani fin dal tempo di Ciro. («Oracoli di Istaspe»).

• «Fu soprattutto la dottrina del “Soccorritore” che formava un ponte per riunire i Magi ai Giudei e ai cristiani... e la propaganda giudea si servì di questa dottrina per attirare i Persiani ad ammettere e ad aspettare quello che essi stessi aspettavano... Nel mondo pagano non c’era quindi gente meglio preparata dei Magi per seguire l’appello degli astri verso Betlemme». (Messina, p. 95). Mentre il testo nulla dice del numero, dei nomi, la tradizione ha variato il numero dei Magi da un minimo di 2 ad un massimo di 12; ma il più comune è di 3, dedotto dal numero dei doni. I nomi di Gaspar, Balthasar e Melchior non risalgono oltre il secolo IX. La stessa incertezza riguarda il tempo della loro venuta che la sentenza più comune pone dopo la Presentazione al Tempio. La regalità attribuita ai Magi da san Cesario di Arles in poi non ha fondamento. I doni sono tipicamente orientali. (...) Fine.

Tratto dal Dizionario biblico, pagg. 370-371, Francesco Spadafora, Roma, 19554, con Imprimatur.

Giudizio universale, o finale è la manifestazione della giustizia divina in un atto giudiziario unico per tutta insieme l’umanità. La dottrina del «giorno del Signore» nel Vecchio Testamento comprende alcuni aspetti riferibili al Giudizio universale (Ps. 97, 8-9; Is. 13, 9; Soph. 1, 2; Ioel 2, 1). La rivelazione completa di questo fatto escatologico è nel Nuovo Testamento, dove ne sono descritte le modalità con abbondanza di particolari (specialmente Mt. c. 25, I Thess. 4, 13-17 ; I Cor. 15). Avvenuta la risurrezione dei morti, allo squillo dell’ultima tromba (I Cor. 15, 52 ss.), ed al grido di un Arcangelo (I Thess. 4, 16), Cristo comparirà Giudice dall’alto del cielo, seduto su un trono (Apoc. 20, 11 s.), ed i giusti risorti tutti insieme (non alcuni prima, altri dopo: I Thess. 4, 15; cf. I Cor. 15, 51) gli andranno incontro. Di questo giudizio che verterà su ogni attività umana, pensieri (I Cor. 4, 5), parole (Mt. 12, 36), opere (Rom. 2, 6) e omissioni (Iac. 4, 17), l’umanità intera risulterà divisa in buoni e cattivi, e per ognuna delle due categorie vi sarà la sentenza appropriata (Mt. 25, 34-46). Per il tempo nulla è detto, se non che prima del Giudizio universale, Israele (come gruppo) si convertirà al Cristianesimo (Rom. 11, 25 ss.). Lo stesso dicasi del luogo; ché Ioel 3, 2 «valle di Iosafat» è solo nome simbolico, e la profezia riguarda la punizione dei popoli finitimi, ostili ad Israele, rientrato dall’esilio. [Voce tratta dal Dizionario Biblico di mons. Francesco Spadafora, Studium, Roma, 1955].

L’ebr. hatunnāh (Cant. 3, 11) esprime la celebrazione del matrimonio, che non ha in ebr. sostantivo corrispondente[...] Il primo matrimonio risale alle origini stesse dell’umanità (Gen. 2, 18 ss.): Eva è data da Dio ad Adamo, compagna indivisibile e quasi completamento dell’uomo, consacrando il consorzio coniugale e fondando la società sulla famiglia (A. Vaccari). L’esser tratta la donna dal lato dell’uomo, oltre a confermare l’unità della specie umana, insegna il dovere dell’amore mutuo e la dipendenza della donna dall’uomo (cf. I Cor. 11, 8). «Per questo l’uomo abbandona il padre e la madre e si unisce alla sua donna e formano una carne sola» (Gen. 2, 24): sono parole del sacro autore, o meglio di Dio, che l’ispirava (cf. Mt. 19, 6); i coniugi fanno come una sola persona, un sol corpo (cf. I Cor. 6, 16). Di qui Gesù stesso trasse una prova della originaria unità (monogamia) e della indissolubilità del matrimonio (Mt. 19, 4-8; A. Vaccari). Esso è un patto divino «del quale Dio è testimone» (Prov. 2, 17; Mal. 2, 14); perciò Tobia (8,9) prega: «Non per voglia insana prendo in sposa questa mia sorella, ma per fedeltà alla legge». Per questo i profeti poterono designare la relazione tra Iahweh e Israele come un matrimonio (Os. 1, 2; Ez. 16 ecc.; Cant.). E il Decalogo comanda: «Non commettere adulterio» (Ex. 20, 14) ; l’adulterio è un peccato contro Dio (Gen. 20, 6; Prov. 2, 17); anche il solo desiderio cattivo (Ex. 20, 17; cf. Gen. 39, 9). Con l’accentuarsi del distacco dell’umanità da Dio, dopo il peccato, nella prava discendenza Cainita è Lamec che la Bibbia ci presenta poligamo (Gen. 4, 18), flessione dalla pura istituzione delle origini. Dio si adatta benevolmente ai costumi imperfetti degli uomini, e dai patriarchi in poi, troviamo attestata la poligamia e il divorzio; praticamente sono i costumi Semiti in genere e dei Babilonesi in particolare. Ne è testimone più celebre il codice di Hammurapi, vari articoli del quale hanno adeguata corrispondenza con la narrazione della Genesi su Abramo. Sara e Agar; Giacobbe, Rachele, Lia e le loro schiave; sui rapporti di Giuda e Tamar (estensione del levirato tra il suocero e la propria nuora, esplicitamente formulata nella legge hittita), ecc. Essendo dunque legittimo il matrimonio poligamico, l’adulterio si aveva soltanto quando lo sposo aveva relazione con la donna di un altro; mentre il rapporto con una nubile era solo atto immorale. Invece era adulterio, il rapporto di una donna sposata con qualsiasi altro uomo. Per l’adulterio era comminata la pena di morte, per l’uomo e per la donna; in ciò la fidanzata era assimilata alla sposa (Gen. 38, 24; Lev. 18, 20; Deut. 22, 22-27 ecc.). La fedeltà coniugale è esaltata (Prov. 5, 15-19); l’onestà della donna celebrata al disopra di ogni altra dote (Prov. 31, 30; Eccli. 26, 23; Tob. 3, 11 ss.); cf. Dan. 13, 23; Iob. 31, 9.11 s. I libri sapienzali tengono severamente in guardia contro ogni infedeltà (Prov. 2, 16 ss.; 5, 3 ss. ecc.), che non può celarsi agli occhi di Dio, anche quando rimane nascosta agli uomini (Eccli. 23, 18 s.). Un’adultera pecca tre volte: ferisce la santità di Dio, inganna il marito e procrea un figlio estraneo (Eccli. 23, 23). Le gioie del matrimonio preservano lo sposo dalle vie inique; egli renda il debito coniugale, perché la sposa non corra il pericolo di divenire infedele (Prov. 5, 13-19). Tra i grandi santi del Vecchio Testamento, (Mosè, Osea, Isaia, Ezechiele, Tobia, ebbero una sola sposa, e monogamo fu il matrimonio di Giuditta; e nel corso dei tempi la monogamia divenne il matrimonio comune).  Il significato religioso del matrimonio, e l’alto livello morale di tutto il V. T., sono manifesti nelle prescrizioni che interdicono la unione tra consanguinei e congiunti (Lev. 18,6-18; 20, 10-21; Deut. 22, 13-30; 27, 20-23 [...]); una sola eccezione è costituita dalla legge antichissima del levirato. Tanto più, se si considerano i costumi degli Egiziani, che non consideravano immorale neppure l’unione del padre con la figlia e forse della madre con i propri figli (cf. DBs, II col. 850 s.) e quelli ancor più depravati dei Cananei (Lev. 18, 3; A. Clamer La Ste Bible [ed Pirot, 2], Parigi 1940, pp. 138-42; 154-57; 652-56). La legge sul divorzio (Deut. 24, 1-4), gli altri passi del Pentateuco che parlano di esso, lo suppongono già in atto, stabilito dal costume; la legge determina soltanto le formalità da seguire per renderlo legale, e impone condizioni e restrizioni, atte a restringere l’uso. La legislazione babilonese (codice di Hammurapi, § 137) non si preoccupa di stabilire il motivo del ripudio (nel § 141 sono enumerate parecchie colpe della sposa che lo permettono senza compenso alcuno). «Se sposata una donna, questa più non gli piaccia, perché ha notato in essa qualcosa di turpe (o di ripugnante), l’uomo le rimetterà scritto un atto di ripudio» ecc. (Deut. 24, 1). La frase ebr. «troverà su di essa una nudità, o onta di cosa», lascia capire che questa cosa vergognosa o ripugnante sia di ordine fisico: come una malattia ad esempio, o altra infermità. Al tempo di Nostro Signore (Gesù Cristo), i rabbini ne discutevano: Shammai intendeva nudità di una colpa grave, in particolare l’adulterio; Hillel invece autorizzava il divorzio per un motivo qualsiasi; i Farisei che interrogano N. Signore (Mt. 19, 3 «è lecito rimandare la moglie per qualunque motivo») appartenevano a questa scuola. Il diritto di divorziare era riservato al solo marito. Più tardi, e per la prima volta nella colonia giudaica d’Elefantina, risulta l’estensione di tal diritto alle donne (Clamer, Op. cit., p. 662 ss.). La legge cercò dunque di proteggere la donna dall’arbitrio dell’uomo. Il marito, rimandando la sposa, ci rimetteva la dote, dono nuziale da lui consegnato al padre della sposa (Ex. 22, 15). L’Eccli. 7, 26 mette in guardia contro il divorzio; considerato tuttavia dai Giudei come una valvola di sicurezza, senza della quale il matrimonio sarebbe troppo duro (cf. Mt. 19, 10). Il matrimonio è uno dei punti in cui più sensibile è il completamento e l’elevazione operati dal Cristo. Nel discorso del Monte: «Fu detto: - Chi licenzia la propria moglie, le dia l’atto di divorzio - (Deut. 24, 1-4). Io invece vi dico che chiunque licenzia la propria donna, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio, e chi sposa la ripudiata, commette adulterio» (Mt. 5, 31 s.). E più completamente in Mt. 19, 3-12. Ai Farisei che gli propongono la questione del divorzio, Gesù risponde riportando il matrimonio alla purezza delle sue origini: Gen. 1, 27; 2, 24; e stabilendone le due qualità essenziali, poste da Dio: l’unità («quel che Dio ha congiunto, l’uomo non separi») e l’indissolubilità assoluta. Mosè non istituì il divorzio, ma lo disciplinò; esso non è una legge, ma un’eccezione tollerata («per la durezza del vostro cuore vi permise Mosè di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non era così»); quindi proclama ancora (come in 5, 31 s.) la legge dell’indissolubilità ( = Mc. 10, 10 ss.; Lc. 16, 18; I Cor. 7, 10 s.; Rom. 7, 2 s.). L’inciso eccetto il caso di concubinato ([...] risponde al rabbinico zenut = matrimonio invalido, non vero, “concubinato”), indica il caso della unione nella quale il vincolo matrimoniale non c’è, e il licenziamento della donna è non soltanto legittimo ma doveroso. (J. Bonsirven, A. Vaccari, C. Spicq). Quindi esalta il celibato virtuoso, di chi volontariamente vuol dedicare tutto se stesso a Dio e alla diffusione del Suo regno. Lo stesso insegnamento è ripreso da san Paolo: il matrimonio, sua legittimità (è un dono [...]), e i suoi diritti (I Cor. 7, 1-7); indissolubilità (vv. 8-16); paragone tra il matrimonio e la verginità (vv. 25-38); stato vedovile (v. 39 s.). Il matrimonio è necessario per chi non ha il dono più elevato della verginità: i coniugi si rendano scambievolmente il debito coniugale: «la sposa non ha il potere sul proprio corpo, ma il marito; egualmente il marito non ha il potere sul proprio corpo, ma la donna. Non vi private l’un l’altro, se non di comune accordo, per breve tempo, per attendere alla preghiera (scopo soprannaturale); e ritornate subito all’usato, affinché Satana non vi tenti facendo leva sulla vostra incontinenza». L’indissolubilità è assoluta, ordine del Signore. «Quanto a quelli che abbracciano la fede, già maritati, se il coniuge infedele consente coabitare col convertito, rimangano uniti; ma se egli si vuol separare, l’altro coniuge è libero (I Cor. 7, 12-15; il cosiddetto privilegio paulino). La ragione (o la precisa ragione) per cui san Paolo diceva al credente di non rompere il precedente legame, era la speranza nel coniuge di poter condurre alla fede l’altro; ora essa cesserebbe in un’unione tormentata e turbata; in tal caso, la parte fedele non deve farsi scrupolo di riprendere la libertà. San  Paolo condanna coloro che proibivano il matrimonio (I Tim. 3, 4); scomunica l’incestuoso di Corinto (I Cor. 5, 1-5). Il marito deve amare la sposa, come Cristo la Chiesa (Eph. 5, 25; Col. 3, 19; cf. I Pt. 3, 1 ss.); il matrimonio deve essere un mezzo di santificazione (I Tim. 2, 15). Il Divin Redentore, che ha onorato con la sua presenza il matrimonio, alle nozze di Cana (Io. 2, 1-11), lo ha elevato sacramento, connettendo al contratto naturale, tra i battezzati, il conferimento della grazia. L’insegnamento infallibile della Chiesa rende esplicito quanto è implicitamente contenuto nei Vangeli (Io. 2, 1, 11; Mt. 19, 3-12) e particolarmente in I Cor. 7 e in Eph. 5, 28-31). Dopo aver citato Gen. 2, 23 s. circa l’unità dei due sposi, e pertanto l’amore scambievole che da essa deriva, san Paolo aggiunge: «Grande è questo mistero, cioè in rapporto al Cristo e alla Chiesa». L’unione dell’uomo e della donna, enunziata nella Genesi e che Dio ha voluto, è un mistero importante e sublime, perché oltre al significato immediato del dono e accettazione mutui dei due sposi, figura l’unione del Cristo e della Chiesa. Ecco il profondo significato (mistero) che va riconosciuto alle parole della Genesi. Questo rapporto, esiste già nel matrimonio o, semplice contratto naturale, come istituito da Dio ; ma esso è pieno, adeguato, soltanto col matrimonio sacramento, per gli effetti della grazia che produce; come la morte redentrice dello Sposo celeste (Mc. 2, 19, s.; cf. Io. 3, 29) rende ferace [fertile, fecondo, ndR] d’ogni bene soprannaturale la sua unione con la Chiesa. [Voce tratta dal Dizionario Biblico di mons. Francesco Spadafora, Studium, Roma, 1955, pagina 389 e successive].