Comunicato numero 211. Che cos’è la predestinazione delle anime?Stimati Associati e gentili Sostenitori, Provvidenza e libero arbitrio sono due verità certissime, fondate su argomenti solidi ed inoppugnabili, e che qui presupponiamo già dimostrate. Il problema che ora vogliamo trattare è quello della loro conciliazione. Che cos’è il fatalismo? Che cos’è la predestinazione delle anime? Chi sono gli eletti? Come mai alcune anime si salvano ed altre si dannano? Perché il pessimismo protestantico mal si concilia con la dottrina di Gesù Cristo? A queste ed altre domande risponderemo poggiando sull’ottimo opuscolo della collezione S.O.S. «Fatalismo e Predestinazione», Francesco M. Gaetani, Serie VI, numero 106. Del medesimo autore segnaliamo il volume «La Provvidenza divina», Napoli, D’Auria, 1941, opera dalla quale è tratta la materia del presente opuscolo. Vedasi pure nella collezione S.O.S. il numero 85: «La verità che più consola».

Queste due certissime verità (Provvidenza e libero arbitrio), messe l’una di fronte all’altra, si presentano come due immensi pilastri, che sorreggono un ponte misterioso, il quale congiunge il cielo con la terra, Dio con l’uomo, l’azione divina con la libera volontà umana. Noi vediamo, ammiriamo la saldezza dei pilastri, sappiamo con piena certezza che un ponte li congiunge; ma questo ponte si lascia appena intravedere al nostro sguardo avido ed ansioso, mentre una voce interiore ci avverte di andare cauti e prudenti nella nostra indagine, perché stiamo per toccare i segreti di Dio. Il primo carattere dunque del problema che intendiamo trattare è un intreccio di luce e di mistero: di luce, intorno alle due verità fondamentali, la Provvidenza ed il libero arbitrio; di mistero, intorno al modo con cui queste due verità si congiungono, senza che l’una violi i diritti dell’altra, senza che l’azione divina annienti la libera volontà umana, senza che la libera volontà umana attenti ai sovrani diritti di Dio. E da questo primo carattere deriva al nostro problema un secondo carattere, perché le questioni che stiamo per affrontare, non sono meramente filosofiche, ma sono sopratutto teologiche; e la parte più difficile di questo problema nasce appunto dall’insegnamento della rivelazione divina, la quale ci attesta: a) Che la Provvidenza divina sulla creatura umana si svolge in un campo soprannaturale; b) Che il fine, verso il quale Iddio dirige la creatura umana, è un fine soprannaturale; c) Che il mezzo indispensabile al raggiungimento ili questo fine è la grazia divina; d) Che questa grazia, mentre è un mezzo indispensabile per meritare la vita eterna, d’altra parte è un dono gratuito di Dio; e) Che da questo incontro del dono divino con la libera cooperazione dell’uomo dipende la salvezza eterna dell’uomo. Ora questi problemi, che si fondano sui dati della rivelazione divina, non possono essere convenientemente trattati se non interrogando la stessa rivelazione, quale ci è fatta per mezzo delle Sacre Scritture, le quali contengono la parola di Dio, per mezzo della Chiesa, custode infallibile del sacro deposito, per mezzo dei Padri e dei Dottori, interpreti sicuri della verità rivelata. Noi dunque interrogheremo le Sacre Scritture, la Chiesa ed i Padri; ed essi ci diranno che vera contraddizione, vero contrasto non vi è mai stato, né potrà mai esservi, tra la verità della Provvidenza e la verità del libero arbitrio. Ma prima di entrare in argomento osserviamo che la Provvidenza è opera della sapienza, della onnipotenza e della bontà divina. Da questi attributi derivano vari problemi, che tratteremo separatamente.

La prescienza divina ed il libero arbitrio. Nell’azione della Provvidenza, la sapienza divina ordina ogni cosa secondo un fine, un disegno concepito dalla mente divina. Ora la Sapienza divina, per avverare il suo disegno nell’uomo, per ordinare la creatura umana al fine concepito fin dall’eternità, deve conoscere fin dall’eternità e con piena e assoluta certezza tutti gli atti della creatura umana, tutte le determinazioni ch’essa prenderà, tutte le determinazioni ch’essa prenderebbe se fosse collocata in diverse circostanze. Se qualche cosa sfuggisse alla conoscenza, alla prescienza divina, oh allora la Provvidenza non sarebbe più possibile, brancolerebbe nel buio, sarebbe frustrata dall’imprevisto. Iddio dunque, fin dall’eternità, conosce con piena ed assoluta certezza tutte e singole le libere determinazioni della mia volontà, quelle che avverranno, e perfino quelle che avverrebbero se mi trovassi in diverse circostanze. Ma se Dio fin dall’eternità conosce con piena ed assoluta certezza tutte le mie deliberazioni, tutte le libere determinazioni, tutti gli atti della mia volontà, questi atti dovranno certamente avvenire, verificarsi nell’ora, nel punto, nel modo previsto da Dio. Ma se dovranno certamente verificarsi, che cosa resta del mio libero arbitrio? Se nell’ora e nel punto previsto da Dio io certamente opererò così come Dio già conosce fin dall’eternità, se io certamente non opererò diversamente da quanto è stato previsto da Dio, sembra doversi concludere che non resta più niente del mio libero arbitrio. È un contrasto che si direbbe insolubile, e che pure si risolve con una risposta così semplice ed ovvia quanto vera e giusta. Giacché, se Iddio fin dalla eternità vede esattamente tutte e singole le cose future, Egli vede queste cose così come esse avverranno e saranno. Dunque Egli vede le cose necessarie come effetti indipendenti dalla libera volontà dell’uomo, ed Egli vede le cose libere come atti della libera determinazione della volontà umana. Dunque la prescienza divina, lungi dall’annientare il libero arbitrio dell’uomo, piuttosto lo suppone e lo conferma. Ricordiamo i versi di Dante? «La contingenza che for del quaderno della vostra materia non si stende tutta - è dipinta nel cospetto eterno: necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per corrente giù discende. (Par. XVII, 37) Per chiarire questo concetto, adduciamo qualche testimonianza dei grandi Padri della Chiesa; e cominciamo con Sant’Agostino, che è l’autore al quale più frequentemente si appellano i teologi. Contro Cicerone — che non sapendo come conciliare il libero arbitrio e la prescienza divina —, nel libro II «De divinatione», aveva finito col negare la prescienza divina — Sant’Agostino, al libro V «De civitate Dei», ci ha lasciato una pagina di squisito sapore agostiniano. Egli dice: «Cicerone nega ogni scienza del futuro e con tutte le forze cerca di dimostrare che essa non esiste assolutamente né in Dio né nell’uomo. Ora confessare che Dio esiste e non ammettere che Egli sia consapevole del futuro, è chiarissima pazzia. Sembra che Cicerone faccia ciò per non ammettere il fato e così, distruggere la libera volontà umana. Ma di che ebbe paura Cicerone nella prescienza dei futuri, così che, con detestabile ragionamento, volle distruggerla? Ebbe paura di ciò, che se tutte le cose future sono conosciute prima, esse verranno con quell’ordine col quale si prevede appunto che verranno ; e se verranno con quest’ordine, Dio è sicuro dell’ordine delle cose; e se è certo dell’ordine delle cose, è certo altresì dell’ordine delle cause; se poi è certo l’ordine delle cause, niente è in nostro potere e non vi è l’arbitrio della volontà; e affinché non seguano queste conseguenze perniciose agli uomini, Cicerone non vuole ammettere la prescienza del futuro. E così Cicerone costringe l’animo dell’uomo religioso a questa dura necessità: o di ammettere la nostra libertà o di ammettere la prescienza delle cose future... E così volendo fare gli uomini liberi, li fa sacrileghi... Noi contro queste sacrileghe ed empie presunzioni, affermiamo che Dio sa tutte le cose prima che avvengano, e che noi operiamo liberamente tutto ciò che sentiamo e sappiamo che da noi si fa liberamente... Dal fatto che Dio è sicuro dell’ordine delle cause, non ne viene che noi non siamo liberi in niente. Gli stessi atti della nostra volontà, certo, si trovano nell’ordine delle cause, del quale ordine Dio è consapevole nella sua prescienza: infatti la volontà umana è causa delle opere umane. Dunque Colui che sa la causa di tutte le cose, non può ignorare tra quelle cause anche i nostri atti di volontà, che Egli prevede essere causa delle nostre opere. Né infatti l’uomo pecca perché Dio ha previsto che egli peccherebbe; ma l’uomo peccherà, allorché pecca, perché Dio previde che non il fato o la fortuna o altra cosa, ma l’uomo stesso peccherebbe; il quale uomo, se non vuol peccare, certamente non pecca, ma se non vuol peccare, anche questo Dio prevede». Dunque la prescienza divina abbraccia tutte e singole le cose future, ma le conosce così come esse avverranno e saranno: conosce le cose necessarie come necessarie, le cose libere come libere, e se le cose libere previste da Dio certamente avverranno, esse avverranno come atto della libera volontà umana. Ecco perché Sant’Agostino, nel trattato «De libero arbitrio» (1. III, c. 4) scriveva: «Iddio con la sua prescienza non costringe a fare quelle cose che di fatto avverranno». Non costringe: perché Egli prevede che avverranno per libera determinazione della volontà umana. Se questi concetti richiedono riflessione per essere ben compresi, contengono pure la verità più certa e più feconda. Così San Giovanni Crisostomo nelle «Omilie su S. Matteo» (59, 1) — spiegando la parola di Gesù Cristo: «È cosa necessaria che vi siano scandali» — commenta: «Quando Cristo dice necessità non intende di togliere il libero arbitrio né la libertà della volontà, né di soggettare la vita a una certa necessità delle cose; ma soltanto predice quello che certamente avverrà. Non è dunque la predizione di Cristo che adduce gli scandali, absit! e nemmeno gli scandali avvengono perché li ha predetti, ma Egli li ha predetti perché sarebbero avvenuti. Così che, se quelli che danno gli scandali, non volessero, gli scandali non verrebbero mai, e se gli scandali non venissero, non sarebbero stati predetti». E San Girolamo, dopo una stringata e nervosa argomentazione contro Marcione «et omnes haereticorum canes», i  quali spropositavano intorno al peccato di Adamo, così conclude: «Non per questo Adamo peccò perché Iddio sapeva che avrebbe peccato; ma Iddio, in quanto Dio, previde ciò che Adamo con la propria volontà avrebbe fatto» (Dial. adv. Pelagianos, 1. IlI, c. 6). Ma in che modo Iddio sa e prevede quello che l’uomo liberamente farà? Non lo sappiamo in modo certo, e perciò varie soluzioni, sottili e delicate, sono state proposte dalle varie scuole teologiche, ma tutti, o per una via o per l’altra, vengono a questa conclusione: Iddio nella sua prescienza abbraccia tutti i nostri atti liberi così come essi sono, e intanto li prevede come liberi in quanto essi nella loro realtà sono e saranno liberi; non li prevederebbe come liberi se non fossero realmente liberi; dunque non vi è contrasto tra la prescienza divina e il libero arbitrio dell’uomo; che anzi, la prescienza divina degli atti liberi dell’uomo è la più efficace conferma del libero arbitrio dell’uomo.

La divina Provvidenza e il peccato. Noi sappiamo che la Provvidenza di Dio ordina, dispone e muove tutte le creature e particolarmente l’uomo, per un fine degno della Sua sapienza, onnipotenza e bontà; eppure l’uomo, sotto lo sguardo e la mano di Dio, commette liberamente il più grave male morale, il peccato, il vero male, quel male che lo rende meritevole del male più irreparabile, la dannazione eterna. Come conciliare gli attributi divini, la sapienza, onnipotenza e bontà, col male morale, che è la più grave e aperta violazione dei diritti divini? Perché Iddio non fa prevalere i Suoi diritti? Tanto più che l’uomo non può liberamente peccare se Dio non lo crea, se Dio non lo conserva in vita, se nel momento stesso della libera scelta peccaminosa Iddio non gli lascia la potenza di operare: come conciliare tutto questo con la divina Provvidenza? Non sarebbe stato meglio non creare quest’uomo? E dopo averlo creato, privarlo del libero arbitrio? Oppure conservandogli il libero arbitrio, non farlo trovare in  quelle circostanze nelle quali l’uomo liberamente sì, ma certamente peccherà? Ecco un altro apparente contrasto tra la divina Provvidenza e il libero arbitrio dell’uomo. Ma vero contrasto non c’è; e dimostreremo che Dio non è in nessun modo autore o causa del peccato, e che, se permette il peccato, lo permette per un fine degno dei suoi attributi divini.

Iddio non è autore del peccato. Contro Calvino ed i suoi seguaci, il Concilio di Trento ha definito: «Se alcuno dirà che non è in potere dell’uomo far male, ma è Dio che fa le opere cattive, non solo in quanto permette ma ancora in senso proprio e per sé, per guisa che sia opera Sua propria non meno il tradimento di Giuda che la vocazione di Paolo, costui sia scomunicato». (Sess. VI. can. 6). Il Concilio di Trento non fa che compendiare in forma dogmatica l’insegnamento della rivelazione divina, contenuto nelle Sacre Scritture e nella Tradizione. Infatti nelle Sacre Scritture, quasi in ogni pagina, assistiamo al contrasto tra Dio e l’uomo peccatore: tra Dio che cerca d’impedire all’uomo di cadere, che lo invita amorosamente a risorgere dopo la caduta; e l’uomo che respinge l’invito divino, che liberamente pecca, che si ostina nel suo peccato. Dunque Dio e il peccato sono due cose assolutamente antitetiche; Dio non è, non può essere in alcun modo l’autore del peccato. E perciò Sant’Agostino nella forma più risoluta esclama: «Dio non è l’autore nemmeno del più lieve peccato». (In «Psal. 104»). E in questo tutti i Padri ed i Dottori sono unanimi. Ed ogni uomo, che abbia retto giudizio, ne vede subito la ragione, giacché non vi è male morale, non vi è peccato, che là dove è opposizione tra una volontà creata e la legge morale espressione della volontà divina. Ora se Dio fosse autore o causa del peccato, si avrebbe la negazione stessa di Dio: l’Essere sapientissimo si adoprerebbe perché la causa creata turbasse l’ordine da Lui stesso stabilito; l’Essere giustissimo punirebbe nella creatura quelle azioni di cui Egli sarebbe responsabile; l’Essere santissimo e perfettissimo oscurerebbe la Sua infinita dignità con una macchia che nulla può cancellare. Ma questo sarebbe negare Dio stesso. Dunque Dio non è, non può essere in alcun modo autore o causa del peccato.

Perché Iddio permette il peccato. Se Dio non è l’autore del peccato — dicono gli avversari — tuttavia lo permette. Questa permissione come è conciliabile con gli attributi divini? Rispondiamo che Dio permette il peccato per un fine degno dei Suoi attributi divini, della Sua sapienza, bontà e onnipotenza. Anzitutto, come si dimostra in sede filosofica, il libero arbitrio è una proprietà della natura razionale, è la perfezione di ogni essere dotato d’intelligenza e di volontà. Se Dio, dunque, liberamente crea l’uomo — e nessuno può arrogarsi il diritto di dettare a Dio la legge se debba creare o non creare l’uomo — egli deve alla Sua sapienza di creare l’uomo, essere razionale, dotato di intelligenza e di volontà, e quindi libero. Sarebbe contrario alla sapienza divina creare una natura razionale, e nel tempo stesso privarla della libertà, di una proprietà inseparabile dalla natura razionale. Ma questa proprietà, si dirà, è una proprietà poco gradita, perché lascia all’uomo la possibilità di peccare. È vero, ma non è questo il fine inteso da Dio; Egli non lascia all’uomo la possibilità di peccare perché pecchi: bensì Dio lascia all’uomo la libertà, perché l’uomo coscientemente, volontariamente, liberamente glorifichi Dio, e con ciò si renda meritevole della pienezza della felicità. Dunque il fine inteso da Dio nel creare l’uomo intelligente e libero, è di creare un essere il più perfetto di tutto questo mondo sensibile, un essere che non sia astretto da una necessità fatale, un essere che, con lo sforzo della sua libera volontà (e con l’ausilio della grazia), sia costante nel tendere al bene e nel compiere il bene, un essere capace di operare moralmente e di rendersi meritevole della pienezza della felicità. Dunque Iddio permette il peccato per lasciare all’uomo quel libero arbitrio, che è la condizione di ogni ordine morale e la fonte di ogni merito. Accanto alla sapienza risplende la bontà divina. Perché se da una parte Iddio lascia all’uomo la libertà di scegliere tra il bene e il male, dall’altra gli porge innumerevoli stimoli per evitare il male ed operare il bene. E chi potrà mai descrivere adeguatamente i doni che la Provvidenza ci largisce, per preservarci dalla colpa? È questa la parte più splendida e più commovente dell’azione divina. Noi purtroppo, quando pensiamo alla Provvidenza siamo soliti di fermarci alle cose terrene ed ai beni materiali; e non riflettiamo che il campo più fecondo e più meraviglioso, in cui si svolge l’amorosa Provvidenza di Dio, è il campo dei valori spirituali. Iddio comincia col farci distinguere il bene dal male, ci manifesta la Sua legge, ci alletta con la speranza dei beni più veri, ci minaccia coi più gravi castighi, se siamo ribelli. E quando stiamo per commettere la colpa, Iddio ne risveglia in noi l’orrore; quando stiamo per riportare la vittoria, Iddio suscita in noi un’intima approvazione; quando stendiamo la mano all’oggetto proibito, Iddio accende in noi il soffocante rimorso; quando consumiamo la colpa, Iddio non ci lascia ancora, finché il sincero pentimento non l’abbia cancellata. Così la possibilità del male è per Dio l’occasione di esercitare di più la paterna Provvidenza. In terzo luogo, nella permissione del male morale, risplende la onnipotenza divina. Giacché  Iddio intanto permette il male morale in quanto sa e può dallo stesso male ritrarre un bene, e un bene che supera immensamente il male che permette. Ce lo attesta la rivelazione divina. Ce lo dice Sant’Agostino nel suo stile lapidario: «Iddio onnipotente, essendo sommamente buono, in nessun modo permetterebbe alcun male, se non fosse così onnipotente e buono da ottenere il bene anche dal male». («Enchir.», 2). Ed infatti il peccato intanto è permesso da Dio, in quanto serve a manifestare la Sua onnipotenza amorosamente misericordiosa e santamente giusta. Onnipotenza amorosamente misericordiosa verso il peccatore che si converte: infatti il perdono che Dio concede, se si considera l’eccellenza infinita di chi perdona e l’estrema viltà di chi è perdonato, è manifestazione massima dell’onnipotenza misericordiosa; la facilità con cui Dio perdona, se si considera la moltitudine e gravità dei peccati ed il poco che è richiesto per un sincero pentimento, è manifestazione massima dell’onnipotenza amorosa; la ricchezza dei doni, che Dio largisce a chi l’aveva abbandonato e vituperato, è manifestazione massima dell’onnipotenza generosa. Che se poi il peccatore si ostina, e resiste all’invito paterno, e calpesta le grazie che gli sono offerte, e impenitente chiude la sua triste giornata terrena, allora Iddio, dopo aver mostrato abissi di dolcezza, di clemenza, di misericordia, dopo aver profuso tesori di pazienza, di grazia, di amore, fa sfolgorare la sua onnipotenza santamente giusta. E così, nel permettere la colpa, Iddio manifesta i Suoi attributi divini, la Sua sapienza, la Sua bontà, la Sua onnipotenza.

La redenzione. Ma non è tutto: dal disordine della colpa Iddio ha saputo trarre un tale bene, che fa esclamare alla Chiesa: «Felice colpa» che ci ha procurato questo bene: la redenzione! Per comprendere quanto questo bene sopravvanzi infinitamente ogni male, noi dovremmo comprendere chi è Gesù Cristo, il nostro Redentore, quale è l’omaggio che Gesù rende al Padre in nome dell’umanità da Lui redenta, quali infiniti tesori di grazie Egli ci ha meritati. Ora se la colpa doveva essere per Dio occasione di tanta gloria, e per noi occasione di tanto bene, perché Dio non poteva permetterla? Dunque nessun contrasto tra gli attributi divini e la permissione del male morale, ma invece il trionfo della sapienza, dell’onnipotenza, della giustizia e della bontà divina. Concludiamo: il nostro libero arbitrio, in un modo o nell’altro, finirà sempre col concorrere alla gloria di Dio, ma dipende da noi che la glorificazione di Dio si congiunga col nostro bene, con la nostra felicità. E per questo appunto Gesù è disceso su questa povera terra e si è immolato per noi e ci ha lasciato in eredità il Suo divino insegnamento: perché noi imparassimo a servirci della nostra libertà, per avverare in noi i disegni della Provvidenza divina, con la sincera ed operosa osservanza della legge divina, con i mezzi di santificazione che ci preservano dalla colpa, con la fortezza cristiana nelle prove della vita, con la filiale fiducia nell’amorosa Provvidenza del Padre. E così ci renderemo degni di vedere un giorno nella luce di Dio quelle vie, per le quali il Padre nostro che è nei cieli, senza violentare la nostra libertà, ci ha sapientemente ed amorosamente condotti alla eterna felicità, per la quale ci ha creati.

Luce e mistero nella predestinazione. Dopo aver dimostrato che la Provvidenza non contrasta col libero arbitrio dell’uomo, non possiamo fare a meno di domandarci: ma in che modo si avvera in ciascuno di noi il fine ultimo inteso dalla divina Provvidenza, il disegno contemplato fin dall’eternità dalla mente divina? In che modo Iddio ci conduce a questo termine, senza rinunziare al Suo supremo ed inviolabile dominio sulla creatura umana e senza menomare d’altra parte quelle che sono le prerogative della libera volontà umana? Problema molto arduo, ma che diventa ancora più arduo, se consideriamo che il fine, al quale Iddio ci destina e ci conduce, è un fine soprannaturale. Giacché, come attesta la fede, Iddio, nella Sua infinita bontà, creando l’uomo l’ha innalzato all’ordine soprannaturale, e l’ha destinato, dopo la breve vita terrena, alla visione intuitiva ed al possesso della Sua essenza infinita: fine che trascende ogni capacità, ogni esigenza di qualsiasi natura creata o creabile. Ora un fine soprannaturale richiede mezzi soprannaturali; un fine che qualsiasi creatura, lasciata alle sue forze, sarebbe impotente a raggiungere, si può raggiungere soltanto con uno speciale aiuto divino. Dunque Dio per avverare in ciascuno di noi il Suo disegno contemplato sino dall’eternità, fin dall’eternità e con piena ed assoluta certezza deve vedere questo fine al quale ci destina, deve conoscere il mezzo soprannaturale proporzionato a questo fine, deve preparare questo mezzo che infallibilmente ci condurrà al conseguimento dei fine ; e questo appunto è ciò che chiamiamo predestinazione. E perciò se interroghiamo i due sommi geni della teologia, Sant’Agostino e San Tommaso, noi avremo che Agostino definisce la predestinazione: «La prescienza e la preparazione dei benefizi divini, pei quali certamente si salvano quelli che si salvano». («De dono perseverantiae», cap. XIV); e San Tommaso la definisce: «Un certo ordine di cose, pel quale alcuni sono condotti all’eterna salute: ordine che esiste nella mente divina» («Somma Theol.», I, q. 23 a. 2). In queste definizioni vi sono due parole che ci lasciano perplessi. Sant’Agostino parla di «benefizi divini, pei quali certamente si salvano quelli che si salvano», e San Tommaso parla di un «ordine di cose pel quale alcuni sono condotti all’eterna salute». Dunque non tutti si salveranno, non tutti saranno condotti alla eterna salute; non tutti sono predestinati. E perché mai? Da chi dipende questa diversa sorte, che deciderà irreparabilmente l’eterno destino dell’uomo? Se dipendesse unicamente da Dio, nel senso inteso da Calvino e da altri eretici, che Dio cioè — prescindendo da qualsiasi ragione di merito o demerito da parte degli uomini ed unicamente perché Egli ha così voluto — crea gli uni per salvarli e crea gli altri per dannarli: allora avremmo la più nefanda bestemmia, contro la giustizia, la santità e la bontà infinita. Se invece la predestinazione dipendesse unicamente dall’uomo, allora dovremmo ammettere un intollerabile assurdo, che cioè la creatura, con le sue forze naturali, possa raggiungere un fine che supera e trascende ogni esigenza, ogni capacità di una natura creata. Se finalmente la predestinazione risultasse dall’incontro tra Dio e la creatura umana, tra il dono divino assolutamente gratuito e la libera cooperazione dell’uomo, allora resterebbe da determinare in che modo questo incontro si effettua, in che modo l’assoluta gratuità del dono non include alcuna ingiustizia da parte di Dio, in che modo i buoni meriti acquistati dall’uomo con la libera cooperazione della sua volontà non attentano alla gratuità del dono. È questo nei veri termini, il problema della predestinazione. Nel trattare questo problema, interrogheremo la divina rivelazione, e così vedremo risplendere una luce rasserenante sulle fitte ombre del mistero. Perciò stabiliremo prima tre grandi verità; poi stenderemo lo sguardo sulla zona oscura del mistero.

• Iddio crea l’uomo per salvarlo. Iddio nel creare l’uomo non è mosso da alcuna necessità o indigenza, ma unicamente da una sapientissima ed amorosissima volontà di comunicare alla Sua creatura qualche cosa della Sua infinita bontà e perfezione, e così manifestare qualche cosa della Sua gloria. E perché questa comunicazione del dono divino, questa manifestazione della gloria divina sia ancora più piena, Iddio innalza l’uomo allo stato soprannaturale, lo rende Suo figlio adottivo, partecipe della divina natura, erede del cielo, cioè della beatitudine incommensurabile, eterna, soprannaturale. Ecco il fine, che Dio intende nel creare ogni uomo: creare un essere, che coscientemente, liberamente, operosamente glorifichi Dio, e glorificando Dio raggiunga la pienezza della felicità nella vita ultraterrena. E quando poi l’uomo prevarica e le porte del cielo gli si chiudono e la sua salvezza è resa impossibile, Iddio ci dà il Suo Figlio unigenito, il quale s’immola per la salvezza di tutti e singoli gli uomini. E perciò Gesù vuole che il Suo Vangelo, cioè la buona, la lieta novella della redenzione sia annunziata ad ogni creatura. Perciò l’apostolo San Giovanni scriveva: «Figliolini miei vi scrivo queste cose, affinché non pecchiate. Che se alcuno avrà peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto. Ed Egli è propiziazione per i nostri peccati, né solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (I Giov. 2, 1-2). E San  Paolo senza esitazione annunzierà: «Il Salvatore Dio nostro vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino al conoscimento della verità, perché non vi ha che un solo Dio, un solo mediatore tra Dio e gli uomini: Cristo Gesù; il quale ha dato se stesso in redenzione per tutti» (I Tim. 2, 4-5). Iddio dunque, con una volontà sincera ed operosa vuole che tutti si salvino. E dire che Dio crea gli uni per salvarli e crea gli altri per dannarli, è nefanda bestemmia; dire che Gesù si è immolato per i soli predestinati, è eresia condannata dalla Chiesa. E i grandi Padri e i Dottori, rappresentanti legittimi della fede cattolica, non si stancano d’insegnare e predicare, che Dio vuole la salvezza di tutte e singole le creature umane. Iddio, essi dicono, a quel modo che di tutti e di ciascun uomo è creatore, di tutti e di ciascun uomo è altresì il salvatore. Dunque tanto si estende la volontà divina in salvare gli uomini quanto in crearli. Iddio, essi insegnano, vuole salvi tutti quelli che vengono da Adamo e che in Adamo e per Adamo furono involti nel peccato originale; dunque, come il peccato originale è comune a tutti gli uomini ed è proprio di ciascuno, così Iddio offre la salvezza a tutti ed a ciascuno. E tra le tante comparazioni ed analogie per esprimere la volontà salvifica di Dio, i Padri preferiscono spesso quella tratta dal sole: come il sole, in quanto da esso dipende, illumina e riscalda le cose tutte, così la volontà divina abbraccia gli uomini tutti, e con la Sua grazia tutti illumina e tutti riscalda. L’aiuto della grazia. La salvezza dono soprannaturale, non può conseguirsi senza la grazia, dono divino, che sovviene alla impotenza della creatura umana, e la illumina, la conforta, la divinizza, la rende capace di meritare la vita eterna. Ed ecco la genuina dottrina cattolica, che viene a spandere un secondo raggio di luce sulla verità della predestinazione, assicurandoci che Dio concede ad ogni uomo gli aiuti necessari sufficienti per salvarsi. Ad ogni uomo: e non solo ai giusti perché perseverino nel bene, ma a tutti, anche agli infedeli ed idolatri, anche ai peccatori accecati ed induriti. Gli eretici calvinisti e giansenisti avevano asserito che: «I pagani, i giudei, gli eretici ed altri dello stesso genere non ricevono nessun influsso da Cristo, e quindi la loro volontà è nuda e inerme senza alcuna grazia sufficiente per salvarsi». Ma il Papa Alessandro VIII, col decreto del Santo Ufficio del 7 dicembre 1690, condannò solennemente questa asserzione. E con questa condanna fu sancito l’insegnamento della Sacra Scrittura e dei Padri. Infatti, la parola di Dio nel Vecchio Testamento proclama: «Io vivo, dice il Signore Iddio, io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva» (Ezech. 33); e la parola di Dio nel Nuovo Testamento fa dire a San Paolo (Rom. 2): «O uomo disprezzi tu forse le ricchezze della bontà e pazienza e tolleranza divina? Non sai tu che la bontà di Dio ti conduce a penitenza?». Ed ammaestrato e confortato dall’insegnamento divino, il sommo Sant’Agostino scriveva l’aurea sentenza: «Non vi è nessuna anima, per quanto perversa ma che ritenga ancora qualche uso di ragione, nella cui coscienza Iddio non faccia risonare la sua voce» («De sermone Dom. in monte», 1. II, cap. 9). Quali siano gli accenti di questa voce, quale sia l’infinita varietà dei suoi toni, secondo le diverse esigenze, o di un anima infedele che non ha ancora ricevuto la luce del Vangelo, o di un’anima cristiana che calpesti la legge divina e la verità evangelica; quali siano le vie di penetrazione, di cui Iddio si avvale per far risonare la Sua voce nell’anima di ogni uomo, in ogni ora, in  ogni circostanza della vita: tutti questi quesiti fanno parte del mistero dell’azione divina sulla creatura umana. Mistero che talora ci è svelato dalla vita dei Santi, dalla storia delle conversioni, dagli annali delle missioni tra gli infedeli, dalle bestemmie stesse degli empi, che cercano di soffocare la voce di Dio. Mistero che altre volte resta sepolto nel segreto della coscienza. Ma in ogni caso, appoggiandoci all’insegnamento divino, noi possiamo e dobbiamo affermare, che Iddio concede ad ogni uomo gli aiuti necessari e sufficienti per salvarsi.

La parte di Dio e quella dell’uomo. Resta da considerare il punto culminante del problema. Giacché, se Dio vuole sinceramente che tutti gli uomini si salvino, se Dio concede ad ogni uomo gli aiuti necessari e sufficienti per salvarsi, perché mai non tutti si salvano? E qui la rivelazione divina ci mette dinanzi a due grandi verità, le quali armoniosamente associate formano il terzo raggio di luce sul problema della predestinazione. La rivelazione ci dice che la predestinazione alla vita eterna soprannaturale, avendo per causa e per effetto ciò che non è dovuto alla nostra natura, ciò che non può essere frutto dei nostri puri meriti, la predestinazione è un dono gratuito. Ma da altra parte la rivelazione soggiunge che Dio è la stessa giustizia, e quindi Dio non rimunera che il merito, non punisce che il demerito. Dunque la rivelazione ci assicura che l’uomo, con la cooperazione del suo libero arbitrio alla grazia, può meritare da Dio la vita eterna; ed al contrario, col rifiuto della sua cooperazione alla grazia, si rende degno della riprovazione. Noi quindi possiamo concludere con una sentenza, che sembrerebbe ardita, se non fosse stata scritta da San Giovanni Crisostomo nel suo commento alla Lettera agli Efesini, e cioè: «Se la nostra salvezza dipendesse solamente da noi uomini, neppure uno si salverebbe; se dipendesse solamente da Dio, neppure uno si perderebbe; ma perché dipende ad un tempo dalla volontà di Dio e dalla nostra, ne consegue che alcuni si salvano e altri si perdono». Ed è proprio questo il significato della celeberrima sentenza di Sant’Agostino: «Chi ti ha creato senza di te, non ti salverà senza di te». La predestinazione è un dono gratuito, perché non si può conseguire senza la grazia, e noi non abbiamo nessun diritto alla grazia, altrimenti non sarebbe più grazia. Ma noi, sostenuti dalla grazia che Dio concede ad ogni uomo, possiamo e dobbiamo cooperare col nostro libero arbitrio, e così meritiamo la vita eterna. Tale è il consolante insegnamento delle Sacre Scritture, nelle quali le due grandi verità — la gratuità della predestinazione da una parte, e dall’altra la capacità dell’uomo di meritare, con l’aiuto della grazia, la vita eterna — sono costantemente ed armoniosamente associate. Il Maestro divino proclama che: «I benedetti dal Padre celeste (cioè i predestinati) saranno chiamati a possedere il regno che loro è preparato dal principio del mondo, perché adempirono in vita le opere di carità» (Matt. 25). San Paolo ci avverte che: «Quel cielo misterioso, che l’occhio non ha veduto, l’orecchio non ha udito, la mente umana non può concepire, è preparato (quindi è predestinato) a quelli che amano Dio» (I Cor. 2). San Pietro ci esorta: «Noi dobbiamo studiarci con le nostre buone opere di rendere certa la nostra vocazione e la nostra elezione» (cioè di rendere certa la nostra predestinazione) (II Petr. 1.). E così in tante altre pagine dei libri santi, le quali ci esortano a convertirci, ad operare il bene, a corrispondere alla grazia, ad operare la nostra salvezza, ad assicurarci l’eterna ricompensa: esortazioni, che suppongono il solenne principio fondato nell’insegnamento divino: «Non sarà coronato se non chi avrà legittimamente combattuto» (II Tim. 2). E perciò San Paolo (I Cor. 9), scrivendo ai fedeli di Corinto, dove erano in onore i giochi atletici e podistici, e nelle cui vicinanze si celebravano i famosi giochi istmici, diceva: «Non sapete che nelle corse dello stadio tutti bensì corrono, ma uno solo riporta il premio? Ma i lottatori lo fanno per conseguire una corona corruttibile, noi una corona incorruttibile. Correte in modo da riportare il premio». E appressandosi al termine del suo faticosissimo apostolato, scriveva a Timoteo (II Tim. 4): «Ho combattuto la buona battaglia, sono giunto al termine della corsa, ho serbato la fede. E ormai mi sta preparata la corona di giustizia, che mi darà in premio il Signore in quel giorno, il Giudice giusto, e non soltanto a me, ma anche a quanti hanno atteso con amore la Sua venuta gloriosa». Dunque la predestinazione è al tempo stesso opera della bontà e generosità divina ed opera della giustizia divina. Dunque la gloria eterna soprannaturale, che Iddio prepara ai predestinati, è al tempo stesso un dono divino, ed è la giusta ricompensa ai meriti acquistati dall’uomo nel corrispondere alla grazia di Dio, come diceva splendidamente San Prospero Aquitano: «La predestinazione divina non è mai senza bontà, non è mai senza giustizia» («Respons. ad Cap. obiect. Vincent.», 10). Ma come si conciliano questi due termini apparentemente antitetici: predestinazione assolutamente gratuita, e predestinazione giusta ricompensa dei meriti acquistati dall’uomo? Rispondiamo valendoci d’una distinzione, frequente nelle scuole di teologia (Cfr. Bonomelli, «Il giovane studente istruito nella dottrina cristiana», Parte II, Tratten. VI). Altra è la predestinazione alla grazia, altra quella alla gloria. La prima è il decreto divino, col quale il sommo perfettissimo Bene stabilisce di dare la grazia alla creatura umana, quella grazia che è un dono assolutamente gratuito, ma che è pure un mezzo indispensabile per conseguire la vita eterna soprannaturale. La seconda è il decreto divino, col quale il sommo perfettissimo Bene stabilisce di dare la vita eterna soprannaturale alla creatura umana. Ciò premesso: Iddio predestina tutti alla grazia, perché Egli vuole sinceramente che tutti si salvino ed a tutti concede la grazia necessaria e sufficiente per salvarsi. Ma Dio predestina alla gloria solo quelli che cooperano al dono divino, che saranno fedeli alla Sua grazia, che persevereranno nel bene. Dunque la predestinazione alla grazia è assolutamente gratuita, antecedente ad ogni merito dell’uomo; ma nessun uomo è escluso da essa, da quel Dio che vuole che tutti si salvino. La predestinazione alla gloria invece è, al tempo stesso, opera della bontà divina, che ci mette in condizione di meritare la vita eterna, ed opera della giustizia divina, la quale premia l’uomo che corrisponde alla grazia.

La zona d’ombra. Abbiamo esaminato tre raggi di luce; ma quanti dubbi, quante obbiezioni ci costringono ad arrestarci dinanzi alla zona oscura del mistero della predestinazione. Se Iddio vuole sinceramente che tutti gli uomini si salvino, perché mai crea quegli uomini che nella Sua prescienza conosce che certamente si danneranno? Inoltre Iddio concede ad ogni uomo la grazia necessaria e sufficiente per salvarsi; ma quanti uomini resistono a questa grazia, mentre una nuova grazia, un maggior numero di grazie avrebbe forse riportato la vittoria su quelle volontà ribelli al dono divino. E poi quanti uomini, dopo aver per qualche tempo corrisposto alla grazia, s’intiepidiscono, si raffreddano, prevaricano, si perdono; ma perché mai Iddio non tronca il filo della vita nel momento buono, quando sono ancora fedeli alla grazia? E si potrebbero moltiplicare interminabilmente i perché, come interminabile è la varietà dei casi, che presenta la diversa distribuzione della grazia divina. Ma a fiaccare la nostra temeraria arroganza, interviene l’Apostolo Paolo (Rom. cc. 9 e 11): «O uomo, chi sei tu da entrare in discussione con Dio?... O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio, quanto incomprensibili sono i Suoi giudizi ed imperscrutabili le Sue vie». Tuttavia, dopo aver umilmente accolto il giusto rimprovero dell’Apostolo Paolo, ascoltiamo ora Sant’Agostino, il quale — a confortarci nello sgomento che c’investe sotto il peso degli imperscrutabili giudizi divini — ci ammonisce sapientemente e paternamente, che «se i giudizi di Dio sono occulti, non perciò sono ingiusti». Se noi siamo impotenti a rimuovere il velo, che nella presente vita ci nasconde il mistero della predestinazione, noi possiamo e dobbiamo confortarci al pensiero, che Dio è infinitamente giusto, che Dio non crea nessun uomo per dannarlo, che nessun uomo è dannato se non per sua vera e propria colpa. Questa verità è costantemente insegnata nelle Sacre Scritture: «Io vivo, dice il Signore Iddio, io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via e viva» (Ezech. 33) ; e San Pietro nella sua seconda lettera (c. III): «Il Signore usa pazienza riguardo a voi; non volendo che alcuno perisca, ma che tutti ritornino a penitenza». E quando l’uomo ostinatamente resiste con la perversa volontà, il Signore, quasi a spiegarci il Suo giudizio infinitamente giusto: «Or dunque — ci invita — voi uomini giudicate tra me e la mia vigna. Che dovevo far di più per la mia vigna che non l’abbia fatto?» (Isaia 5). Nessuno è dannato al supplizio eterno che non sia per sua colpa. «Quelli che periscono — esclama Sant’Ambrogio — periscono per la loro colpa» («De Cain et Abel», 1, II, c. 3), e quindi «giustamente è abbandonato da Dio chi abbandona Dio» (San Fulgenzio, «Ad mon.», 1. I, c. 13): chi abbandona Dio coscientemente, costantemente, ostinatamente, respingendo le Sue grazie, fino a quell’ultima grazia che è l’estremo invito del Padre la cui misericordia non ha limiti. Verrà un giorno in cui leggeremo nel libro divino, e sapremo il perché della diversa distribuzione delle grazie divine, e vedremo tante cose che oggi ci sono nascoste; ma una cosa certamente leggeremo in quel libro, una cosa che già sappiamo con infallibile certezza: Iddio è bontà e giustizia infinita. Egli crea l’uomo per salvarlo, Egli dà ad ogni uomo i mezzi per salvarsi; e se l’uomo si perde è per sua propria colpa: quelli che si dannano «potrebbero salvarsi se volessero» ha scritto Sant’Agostino («Enchir.», c: 94).

Fatalismo e predestinazione. E così abbiamo pure la risposta al famoso dilemma: o sono predestinato o non sono predestinato; se sono predestinato, qualunque cosa io faccia certamente mi salverò; se non sono predestinato, qualsiasi sforzo io compia, certamente mi perderò. Questo dilemma per gli uni è pretesto della più sfacciata depravazione, per gli altri è motivo della più soffocante angoscia. È pretesto di depravazione per quelli che ragionano in questo modo: a che prò affaticarmi a vivere onestamente, ad osservare la legge divina, a privarmi dei godimenti leciti o illeciti della vita ; tanto qualunque cosa io faccia, se io sono predestinato certamente mi salverò, se non sono predestinato certamente mi perderò. È motivo di angoscia per quelli che ragionano in questo modo: io voglio praticare il bene per salvarmi, io abbraccio con rassegnazione  i mille sacrifici che s’impone una vita virtuosa, io mi sforzo con immense privazioni di perseverare nel bene; ma se non sono predestinato a che gioverà tutto questo? Ebbene se esaminiamo il dilemma proposto, noi troviamo che esso non giustifica in nessun modo né l’uno nè l’altro ragionamento; perché nel ragionamento dei primi, oltre la più sfacciata depravazione, vi è un’immensa stoltezza; in quello dei secondi vi è una falsa supposizione. Per dimostrare quanta sia la stoltezza del ragionamento dei primi, possiamo valerci di ragionamenti analoghi applicati ai casi comuni e volgari ma efficacissimi. Così se uno ragionasse in questo modo: Iddio fin dalla eternità nella Sua prescienza e nei Suoi decreti ha stabilito se guarirò o soccomberò; dunque è inutile che io sprechi denaro in medici e medicine... Se un altro ragionasse così: Iddio fin dall’eternità ha stabilito se vincerò o perderò questa lite: dunque qualsiasi cosa io faccia certamente vincerò o perderò: dunque è inutile che io ricorra ad un avvocato per far valere i miei veri o presunti diritti... Ma costoro sono stolti, voi direte e non avrete torto; ed avete pieno diritto di definire stoltezza l’analogo ragionamento applicato alla predestinazione. Ma vi è qualche cosa di più specifico ancora, ed è che il ragionamento di questi depravati, i quali dal famoso dilemma vorrebbero concludere ad una vita gaia e spensierata; come pure il ragionamento di quelle anime timorate, le quali dalla incertezza della predestinazione traggono motivo per la più soffocante angoscia: tutti questi ragionamenti si fondano in una falsa supposizione, che cioè la predestinazione alla gloria sia decretata da Dio senza tener conto dei meriti e dei demeriti degli uomini. Supposizione falsa, perché contraddetta dall’insegnamento della rivelazione divina, il quale, come abbiamo veduto, ci assicura che la predestinazione è decretata con immensa bontà ed infinita giustizia: è un dono divino, il massimo dono divino; ma è al tempo stesso la corona di giustizia, il premio dei buoni meriti acquistati dall’uomo nel corrispondere alla grazia divina. E quindi non è vera la supposizione del dilemma, che qualsiasi cosa io faccia certamente mi salverò o mi perderò. Ma la verità è questa: se io coopererò sinceramente, attuosamente, alla grazia divina, che il Signore infinitamente buono e giusto mi offre, io conseguirò l’eterna salvezza. Iddio, infatti, non si stanca d’illuminarci, d’invitarci, di sostenerci, perché noi siamo costanti nell’operare il bene, siamo vigilanti nello sfuggire alle insidie del male, siamo forti nel resistere alla tentazione, siamo pronti nel risorgere dalla colpa, siamo perseveranti nel quotidiano combattimento. Iddio ci dà l’aiuto per riuscire vittoriosi, dunque se noi cooperiamo alla grazia divina, noi ci assicuriamo l’eterna salvezza. Si aggiunga che ogni nuova vittoria da noi riportata non è soltanto un nuovo titolo per meritare la vita eterna, ma è pure un nuovo tenero potente invito, che noi rivolgiamo al Padre nostro, perché ci accordi nuove grazie; grazie che ci santificano e ci rendono sempre più forti e costanti nel bene. Al Padre nostro — ho detto — perché queste anime, che dal pensiero della predestinazione traggono motivo di angoscia, che confina con la disperazione, dimenticano purtroppo l’insegnamento di Gesù, il quale ci ha dato il dolce diritto di vedere in Dio il Padre nostro: Padre amorosissimo, perché ci vuol salvi e per questo ci ha dato il suo Figlio Unigenito; Padre sapientissimo, che conosce quello che noi siamo e pensiamo ed operiamo nei singoli istanti della nostra esistenza terrena, vede le nostre intenzioni, i nostri desideri, i nostri sforzi; Padre santissimo, che nei Suoi divini decreti opera nel modo più perfetto; Padre giustissimo, che non può non premiare fino al più piccolo atto di virtù, compiuto per la vita eterna, sotto l’influsso della grazia che Egli stesso ci offre.

Per il P. Francesco M. Gaetani e per gli onesti autori menzionati: + Réquiem aetérnam dona eis, Dómine, et lux perpétua lúceat eis. Requiéscant in pace. Amen. +

A cura di CdP