Comunicato numero 68. Il settimo comandamento

Stimati Associati e gentili Sostenitori, studiamo il settimo dei comandamenti: «Non rubare», usando il semplice Catechismo del Santo Concilio di Trento.

• Spiegazione del comandamento. Fu antica consuetudine della Chiesa inculcare agli ascoltatori l’importanza e la natura di questo comandamento. Lo prova il rimprovero dell’Apostolo a coloro che premuniscono con ogni zelo gli altri da questi vizi, mentre essi ne sono stracarichi: «Tu che sei maestro agli altri, non insegni nulla a te stesso; vai predicando che non si deve rubare, e rubi» (Rm. 2, 21). Insistendo su questo insegnamento, non solo veniva corretta una colpa frequente in quei tempi, ma erano anche sedati i turbamenti e le liti, ed eliminate le altre cause dei mali che sogliono scaturire dal furto. Ma poiché anche il nostro tempo è infestato da simili reati e disordini, i Parroci, sulle orme dei santi Padri e dei maestri della disciplina cristiana, tornino spesso su questo precetto, spiegandone con assidua diligenza l’importanza e il contenuto. Innanzitutto dedicheranno la loro cura a spiegare l’infinito amore di Dio verso il genere umano, poiché volle non solamente tutelare, quasi con un presidio, la vita, il corpo e la fama nostra con i due divieti: Non ammazzare, Non commettere atti impuri, ma volle anche, con questo altro comandamento, Non rubare, munire esternamente e difendere le nostre sostanze. Che cosa infatti potrebbero significare le parole suddette, se non possedessero la virtù dei precedenti precetti? Comanda cioè Iddio che i nostri beni, costituiti sotto la Sua tutela, non siano da veruno violati o manomessi. E del singolare beneficio divino racchiuso nel precetto, dobbiamo essere particolarmente grati a Dio che ne è l’autore. E poiché ci è stato chiaramente indicato il modo migliore di nutrire e di esprimere la nostra gratitudine, che è non solo di accogliere apertamente la formulazione del precetto, ma di metterlo in pratica, i fedeli devono essere stimolati e infiammati a mostrare così il loro ossequio ad esso.

• Come i precedenti, anche questo precetto abbraccia due parti: quella, apertamente formulata, che proibisce il furto; l’altra, implicita nella prima, che impone di essere benevoli e generosi verso il prossimo. Parleremo innanzitutto della prima: Non rubare.

• Natura e specie del furto. Si avverta subito che col nome di furto non si intende semplicemente l’atto di sottrarre qualcosa di nascosto ad un padrone che non sa e non vuole, ma anche l’azione di ritenere apertamente la roba altrui, contro la volontà del proprietario, a meno che non si voglia pensare che, proibendo il furto, si siano volute tollerare le rapine compiute a mano armata, mentre l’Apostolo afferma: «I rapinatori non conseguiranno il regno di Dio» (1 Cor. 6, 10). Anzi, il contatto e la solidarietà con questa gente devono essere, sempre, secondo l’Apostolo, scrupolosamente evitati (1 Cor. 5, 10).

• Sebbene la rapina costituisca una colpa più grave del furto perché toglie dei beni coll’aggiunta della violenza contro la persona, e sia quindi più ignominiosa, nessuno si meravigli che la formula del comando divino usi il termine più lieve di furto, tralasciando quello di rapina. Ciò è stato fatto con ponderazione, perché l’ambito del furto è più vasto di quello della rapina. Questa infatti può essere perpetrata solamente da chi disponga di forza e di mezzi. Del resto tutti comprendono come la proibizione di alcuni peccati più leggeri implichi il divieto di colpe più gravi del medesimo genere.

• Il possesso e l’uso ingiusto delle cose altrui sono segnalati con vari nomi, secondo la diversità degli oggetti, sottratti ad insaputa e contro la volontà dei padroni. Se un bene privato è tolto ad un privato, l’azione è detta furto; se si sottrae qualcosa al bene pubblico, si compie peculato; traendo in schiavitù un uomo libero o un servo altrui, si commette un plagio; infine rubando un oggetto sacro, si cade nel sacrilegio. E questa è la forma più grave di questo delitto, che trae a privato godimento e a cupidigie riprovevoli beni categoricamente destinati, con disposizioni pie e sagge, al culto sacro, ai ministri della Chiesa, e ad usi di beneficenza.

• La legge divina non proibisce solamente l’atto esterno del furto, ma anche l’intenzione ed il proposito di rubare. Si tratta infatti di una legge spirituale, che mira all’anima, sorgente dei pensieri e dei propositi. Secondo la frase del Signore, in san Matteo: «Dal cuore partono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze» (Mt. 15, 19).

• Gravità del furto. La gravita del crimine di furto emerge dalla stessa legge naturale e dal lume della ragione, essendo esso contrario alla giustizia, la quale vuole che a ciascuno sia attribuito il suo. La distribuzione e l’assegnazione dei beni, stabilite fin dagli inizi secondo il diritto delle genti, ratificate dalle leggi divine ed umane, devono infatti essere rispettate, sicché ognuno conservi, quanto in linea di diritto gli spetta, se non vogliamo che sia sovvertita la società umana. Dice l’Apostolo: «I ladri, gli avari, gli ubriachi, i maldicenti, i rapaci, non conseguiranno il regno di Dio» (1 Cor. 6, 10). Le numerose conseguenze del furto rivelano anch’esse l’enormità di questo delitto. Si vanno diffondendo, infatti, giudizi temerari e ingiusti su molti; scoppiano gli odi; sono alimentate le inimicizie; talora si giunge a gravissime condanne di innocenti.

• Corre l’obbligo del resto, a tutti divinamente imposto, di dare completa soddisfazione al derubato. Come dice sant’Agostino, il peccato di furto non viene perdonato, se non viene restituita la refurtiva (Lett. CLIII). La quale restituzione, quando uno si sia abituato ad arricchirsi con la roba altrui, diviene compito molto arduo, come è facile arguire dall’esperienza altrui e dal buon senso proprio. Il profeta Abacuc lo asserisce esplicitamente: «Guai a colui che accumula beni non suoi! Egli va impegolandosi in un fango densissimo» (Ab. 2, 6). Dove fango denso è definito il possesso delle sostanze altrui, dal quale gli uomini solo a fatica possono emergere ed uscire.

• Tanti sono i generi di furto, che non è agevole segnalarli tutti. Basterà perciò quel che abbiamo detto intorno al furto ed alla rapina, a cui può riportarsi in radice quel che ora diremo. I Parroci usino la massima cura e diligenza nell’indurre il popolo a detestare con orrore questo perverso delitto.

• Proseguiamo con le varie specie di questo vizio. Sono dunque ladri anche coloro che comprano oggetti rubati, o ritengono cose comunque trovate, occupate, sottratte. Dice sant’Agostino: «Se non hai reso quel che trovasti, hai rubato» (Serm. CLXXVIII). Qualora poi sia assolutamente impossibile rinvenire il padrone, la roba trovata sia destinata alla beneficenza. Chi non sente di dover restituire, si rivela capace di fare man bassa di tutto, se lo potesse.

• Altri trasgressori di questo comandamento. Si rendono rei della medesima colpa coloro che usano frodi e discorsi ingannevoli nel comprare e nel vendere; il Signore punirà queste loro frodi. In questo genere di furti si mostrano più insopportabili e più malvagi quelli che vendono come genuine, mercanzie adulterate e guaste, o che ingannano i compratori nel peso, nella misura, nella quantità e nelle norme della compravendita. Sta scritto infatti nel Deuteronomio: «Non avrai nel sacchetto diversi pesi» (25, 17). E nel Levitico: «Non commettete ingiustizia alcuna nel giudicare, nel computare, nel pesare e nel misurare. Sia giusta la stadera e (sempre) eguali i pesi, giusto il moggio e identico il boccale (sestario)» (XIX, 35). Sta scritto pure in un altro luogo: «è abominevole presso il Signore chi usa due pesi; una stadera ingannevole non è buona» (Pr. 20, 23).

• E anche furto manifesto quello degli operai e degli artigiani, che ricevono tutta intera la mercede, senza prestare l’opera giusta e dovuta. Né poi si distinguono dai ladri i servi che siano custodi infedeli dei padroni e delle loro cose; sono anzi più detestabili degli altri ladri, che non hanno sottomano le chiavi; perché con un servo ladro nulla in casa rimane sigillato, o chiuso.

• Inoltre commettono furto quelli che carpiscono denaro con parole finite e simulate, o con falsa mendicità; anzi il peccato di costoro è più grave, perché aggiungono al furto la menzogna.

• Si devono riporre nel numero dei ladri anche quelli che, dopo essere stati assunti a qualche ufficio privato o pubblico, fanno poco o nulla, trascurano il loro dovere, pur esigendo la paga e la ricompensa.

• Sarebbe cosa lunga e, come abbiamo detto, difficilissima, trattare di tutti gli altri furti escogitati da una solerte avarizia, che conosce tutti i mezzi per fare denaro. Ci sembra quindi giusto parlare ora della rapina, che forma il secondo capitolo di questo genere di crimini. Prima però il Parroco ammonisca il popolo cristiano di ricordare la sentenza dell’Apostolo: «Chi vuol farsi ricco, cade nella tentazione e nei lacci del demonio» (Tim. 6, 9). Né mai in alcun luogo gli cada dalla mente questo precetto: «Fate agli uomini quanto volete ch’essi facciano a voi» (Mt. 7, 12); tutti poi ricordino sempre il motto: «Non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te» (Tob. 4, 16; Lc. 6, 31).

• Chi si rende colpevole di rapina. Più esteso quindi è il campo della rapina. Poiché anche quelli che non danno la mercede dovuta agli operai, sono rapinatori; e san Giacomo li invita alla penitenza con queste parole: «Piangete, o ricchi, ululando sulle vostre sciagure, che vi piomberanno addosso» (Gc. 5, 1). E più sotto aggiunge la ragione per cui devono fare penitenza: «Ecco che la mercede degli operai, che hanno mietuto i vostri terreni, da voi defraudata, grida, e il loro grido è entrato nelle orecchie del Signore degli eserciti» (Gc. 5, 4). Questo genere di rapine è severamente condannato nel Levitico (XIX, 13), nel Deuteronomio (24, 14), nel Libro di Malachia (3, 5) e nel Libro di Tobia (4, 15). In questa classe di rapinatori sono inclusi coloro che non pagano, o carpiscono e prendono per sé le gabelle, i tributi, le decime e simili cose, dovute ai rettori della Chiesa ed ai magistrati.

• Si rendono rei di questa colpa gli usurai inesorabili e crudeli nelle rapine, che derubano e dissanguano il misero popolo con le loro usure. Consiste l’usura nel ricevere un’aggiunta in più oltre il capitale dato, sia denaro o qualsiasi altra cosa, che possa esser acquistata o stimata per denaro. Così infatti sta scritto nel libro di Ezechiele: «Non riceverà usura e sovrabbondanza (di denaro)» (Ez. 18, 17); e il Signore dice nel Vangelo di san Luca: «Date in prestito, senza aspettarne nulla» (6, 34). Sempre fu considerato gravissimo questo delitto, anche presso i pagani, e odioso più d’ogni altro. Da ciò il motto: «Cos’è far usura? E che cosa è uccidere un uomo?». Poiché quelli che danno a usura, vendono due volte la medesima cosa, o vendono quel che non esiste.

• Commettono rapine anche i giudici corrotti dal denaro, che emettono giudizi venali, e che, adescati con denaro e condoni, capovolgono le giustissime cause degli umili e dei diseredati.

• Sono condannati per la medesima colpa di rapina quelli che frodano i creditori, i debitori fraudolenti e tutti coloro, che, ottenuto un certo lasso di tempo per pagare, comprano mercanzie sulla parola propria o altrui, e non mantengono la parola giurata. Il crimine di costoro è anche più grave, perché i mercanti, in conseguenza del loro inganno e della loro frode, vendono più cara ogni cosa, con grave danno di tutta la cittadinanza. A costoro sembra convenire il detto di David: «Il peccatore prenderà in prestito e non pagherà» (Ps. 36, 21).

• E che diremo di quei ricchi che troppo duramente esigono, da quelli che non hanno da pagare, quel che presero in prestito, e, contro la proibizione di Dio, tolgono loro come pegno, anche le cose necessarie al mantenimento del loro corpo? Dice infatti Iddio: «Se riceverai in pegno dal tuo prossimo il vestito, glielo restituirai prima del tramonto. Esso infatti è l’unica cosa con cui si può coprire, è l’indumento della sua carne, e non ha altro in cui possa dormire; se griderà giustizia a me lo esaudirò, perché sono misericordioso» (Ex. 22, 26). La crudeltà della loro pretesa chiameremo dunque a buon diritto rapacità e rapina.

• Nel numero di coloro, che vengono chiamati rapinatori dai santi Padri sono quelli che, durante la carestia, incettano frumento e fanno sì che per loro colpa il mercato sia più caro e più difficile. Ciò vale anche per tutto quel che riguarda il mantenimento e tutte le cose necessarie alla vita; ad essi si riferisce quella maledizione di Salomone: «Chi nasconde le derrate, sarà maledetto fra le genti» (Prov. 11, 26).

• I Parroci dunque liberamente rimprovereranno costoro dei loro misfatti, e più ampiamente spiegheranno le pene minacciate per questi peccati.

• Chi è obbligato alla restituzione. Ciò che abbiamo detto riguarda le cose proibite; ora veniamo a parlare delle cose comandate da questo precetto, tra le quali ha il primo posto la soddisfazione o restituzione; infatti il peccato non viene rimesso, se non si restituisce il mal tolto. Ma, poiché non soltanto chi ha commesso un furto deve restituire il maltolto a colui che ha derubato, ma anche tutti quelli che parteciparono al furto sono obbligati alla restituzione, bisogna spiegare chi siano quelli che non possono sfuggire a quest’obbligo di soddisfare o di restituire.

• Parecchie sono le categorie di siffatta gente. La prima è di coloro che comandano di rubare; essi sono non solo compagni e autori del furto, ma anche i più malvagi tra quel genere di ladri.  La seconda categoria, pari alla prima nella volontà sebbene inferiore negli effetti, e tuttavia da considerarsi allo stesso grado, è di quelli, che non potendo comandare, sono consiglieri e suggeritori di furti. Terza categoria è di coloro, che vanno d’accordo coi ladri. Quarta, quella di coloro che partecipano al furto, donde essi traggono lucro: se si può chiamar lucro quel che li conduce agli eterni tormenti, qualora essi non si ravvedano; e di loro cosi parla David: «Se vedevi un ladro correvi con lui» (Ps. 49, 18). Quinta categoria di ladri sono coloro che, potendo impedire il furto, sono tanto lontani dall’impedirlo e dall’opporsi; che anzi lasciano e permettono che esso avvenga. Sesta categoria sono coloro che, sapendo con certezza che è stato fatto un furto e dove, non svelano la cosa, ma fingono di non saperla. L’ultima categoria comprende tutti i complici, i custodi, i patrocinatori, e quanti offrono loro un ripostiglio ed un rifugio. Tutti costoro sono tenuti alla riparazione verso i derubati, e devono esser caldamente esortati a compiere questo dovere indispensabile. Né sono del tutto immuni da questa colpa neppure coloro che approvano e lodano il furto. Non sono poi alieni da questa medesima colpa i figli di famiglia e le mogli, che sottraggono di nascosto denaro ai padri e ai mariti.

• Bisogna inculcare la misericordia. In correlazione con questo comandamento sta la divina sentenza che noi dobbiamo aver compassione dei poveri e dei bisognosi; alleviarne le tristi condizioni e le angustie coi nostri mezzi e i nostri servigi. E siccome questo argomento deve esser trattato spessissimo e con la massima ampiezza, i Parroci cercheranno nei libri di uomini santissimi come Cipriano, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nazianzeno ed altri, che ottimamente scrissero intorno all’elemosina, ciò che loro occorre per soddisfare a quest’obbligo.

• Infatti bisogna infiammare i fedeli all’ardore e all’alacrità nel soccorrere coloro, che devono vivere della pietà altrui. Bisogna anche insegnare quanto sia necessaria l’elemosina, affinché tutti possiamo mostrarci veramente, in pratica e con l’opera nostra, liberali verso i bisognosi, con questa argomentazione validissima che, cioè, nel supremo giorno del giudizio, Dio avrà in abominio e condannerà al fuoco eterno coloro che tralasciarono o trascurarono gli obblighi dell’elemosina; invece loderà e introdurrà nella patria celeste coloro che benignamente trattarono gli indigenti.

• L’una e l’altra massima furono pronunciate dalla bocca di Nostro Signore Gesù Cristo: «Venite, benedetti del Padre mio, possedete il regno preparato per voi; Via da me, maledetti, nel fuoco eterno» (Mt. 25, 34; Mt. 25, 41).

• Inoltre i sacerdoti citino i passi adatti a persuadere, per esempio: «Date e vi sarà dato» (Lc. 6, 38). Espongano la promessa di Dio, della quale non si può pensare niente di più ricco e magnifico: «In verità vi dico, nessuno ha abbandonato la casa ecc..., che non riceva il centuplo adesso in questo mondo e nel mondo avvenire la vita eterna» (Mc. 10, 29 e 30). Aggiungano quel che fu detto da Cristo: «Fatevi degli amici per mezzo del mammona d’iniquità, affinché, quando veniate a mancare, vi diano ricetto nelle tende eterne» (Lc. 16, 9).

• Vari modi di esercitare la misericordia. (I Parroci) espongano, poi, le varie specie di questo dovere, in modo che chi non può largire ai bisognosi tanto da sostentare la vita, almeno conceda prestiti al povero, secondo il precetto di Cristo nostro Signore: «Date in prestito, senza aspettarne nulla» (Lc. 6, 34). Il santo re David così esprime la felicità di chi agisce in tal modo: «Beato l’uomo che ha misericordia e dà in prestito» (Ps. 111, 5). È degno poi della cristiana pietà, quando non ci sia possibilità di beneficare altrimenti quelli che per vivere hanno bisogno della pietà altrui, esercitare un lavoro con le proprie mani, evitando così anche l’ozio, per poter alleviare l’indigenza dei bisognosi. A ciò esorta tutti l’Apostolo col suo esempio, nella lettera ai Tessalonicesi, con le parole: «Voi stessi sapete quanto sia necessario imitarci» (2 Tess. 3, 7). Parimente agli stessi: «Attendete a star quieti, ad adempiere il vostro ufficio e a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ammaestrati» (1 Tess. 4, 11). Ed agli Efesini: «Chi rubava, ormai non rubi più; piuttosto lavori operando con le proprie mani quel che è buono, per avere di che dare il necessario a chi soffre» (Efes. 4, 28).

• Bisogna anche curare la frugalità ed avere riguardo ai beni altrui, per non essere di peso né molesti agli altri. Questa temperanza, certo, appare in tutti gli Apostoli, ma sopratutto splende in san Paolo di cui è quel motto ai Tessalonicesi: «Ricordatevi, o fratelli, del nostro lavoro e della nostra fatica: lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi, vi predicammo il vangelo di Dio» (1 Tess. 2, 9). E lo stesso Apostolo in un altro luogo afferma: «Con fatica e con sudore, lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi» (2 Tess. 3, 8).

• Bisogna tener lontani i cristiani da queste colpe.  Ma perché il popolo fedele si tenga lontano da tutto questo genere di nefandi delitti, sarà compito dei Parroci rintracciare nei Profeti e prendere dagli altri Libri divini le parole di abominio dei furti e delle rapine, e le terribili minacce fatte da Dio a coloro che commettono quelle colpe. Esclama il profeta Amos: «Ascoltate, voi che calpestate il povero e fate perire i miseri della terra, dicendo: Quando passerà il mese, e venderemo le mercanzie? Allora potremo diminuire la misura, aumentare il siclo e usare stadere ingannevoli» (Amos 8, 4-5). Sono dello stesso tenore molte espressioni in Geremia (VII, 8 e seg.), nei Proverbi (Pr. 21, 6) e nell’Ecclesiastico (X, 9). Non c’è poi da dubitare che l’origine dei mali, da cui è oppressa questa età, sia in gran parte compresa in queste cause. Ma perché i Cristiani s’avvezzino a trattare con tutti i mezzi imposti dalla liberalità e dalla benignità i bisognosi e i mendichi - la qual cosa si riferisce all’altra parte del comandamento - i Parroci esporranno i grandissimi premi che Dio promette in questa vita e nell’altra agli uomini benefici e munifici.

• Bisogna respingere le scuse ingiuste. Ma poiché non manca chi, anche a proposito di furto, cerca di scusarsi, costui deve essere ammonito che Dio non accoglie nessuna scusa del suo peccato; che, anzi, il suo peccato non solo non sarà alleviato da quella giustificazione, ma maggiormente accresciuto.

• Ecco le insopportabili pretese di nobili che credono di diminuire la propria colpa, affermando di non essere discesi a toglier l’altrui per cupidigia o avarizia, ma per conservare il grado della famiglia e degli antenati, la cui stima e dignità andrebbero in rovina, se non fossero sostenute dall’aggiunta delle sostanze altrui. A costoro bisogna strappare questo pernicioso errore, e dimostrare nello stesso tempo che una sola è la maniera di conservare e aumentare le ricchezze, la potenza e la gloria degli antenati: ubbidire alla volontà di Dio e osservare i suoi precetti. Disprezzati questi, le ricchezze formate e conservate con ogni cura, sono distrutte; i re medesimi, precipitati dal soglio regale e dal sommo fastigio, sono umiliati; e al loro posto, talvolta, sono chiamati, per volere divino, uomini infimi, che spesso furono da loro grandemente odiati.

• È incredibile quanto si sdegni Dio con costoro; ne è testimone Isaia, in cui si trovano queste parole di Dio: «I tuoi principi furono infedeli e alleati di ladri; tutti amano i doni, e corteggiano le retribuzioni. Per questo il Signore Iddio degli eserciti e del forte d’Israele dice: Oh, mi consolerò dei miei nemici, e mi vendicherò dei miei avversari; volgerò la mia mano a te e purificherò la tua scoria nel fuoco» (Is. 1, 23-25).

• Non manca chi adduce come pretesto non lo splendore e la gloria, ma il proprio mantenimento e la possibilità d’una vita più comoda e agiata. Bisogna rintuzzare costoro e mostrare loro quanto empi siano le loro azioni e i loro discorsi, mentre preferiscono qualche comodità alla volontà e gloria di Dio, che noi offendiamo in modo straordinario (terribile, ndR) trascurando i Suoi precetti. Ma quale comodità mai può esservi nel furto, a cui tengono dietro i più gravi incomodi? Nel ladro infatti, dice l’Ecclesiastico, è confusione e pentimento (5, 17). Ma ammesso pure che ciò non sia (sempre, ndR), è certo che il ladro disonora sempre il Nome divino, ripugna alla santissima volontà Sua e disprezza i Suoi salutari precetti; da questa fonte deriva ogni errore, ogni malvagità, ogni empietà.

• E che dire dei ladri che affermarono di non peccare affatto, perché tolgono qualcosa a uomini ricchi e ben forniti, i quali da questo furto non soffrono danno, anzi neppure se ne accorgono? Infelice, certo, e pestifera è tale difesa.

• Qualcuno crede che debba essere accolta la sua scusa, ossia la propria consuetudine a rubare, in modo che difficilmente potrebbe desistere da quell’intenzione e da quell’azione. Costui, se non ascolta l’Apostolo che dice: «Chi rubava, ormai non rubi più» (Efes. 4, 28), voglia o non voglia, dovrà prendere anche la consuetudine degli eterni supplizi.

• Alcuni si scusano di avere rubato, essendosene data l’occasione; va infatti sulla bocca di tutti quel trito proverbio: l’occasione fa l’uomo ladro. Bisogna togliere a quelli che così pensano questa malvagia opinione e insegnare loro che si deve resistere alle cattive passioni. Poiché se si dovesse continuamente compiere quello che c’induce a fare la passione, qual misura, qual limite metteremo ai delitti ed alle nefandezze? Grandemente invereconda è dunque quella difesa o piuttosto confessione di somma cupidigia e di ingiustizia. Poiché chi dice di non peccare perché non ha occasione di peccare, confessa quasi nello stesso tempo che peccherà ogni volta che gli se ne offrirà il destro.

• Alcuni dicono di rubare per vendicarsi del furto loro fatto da altri. Ad essi bisogna rispondere che prima di tutto non è lecito vendicare le ingiurie; in secondo luogo, nessuno può esser giudice in causa propria; quindi molto meno si può concedere che essi infliggano ad altri la pena di colpe commesse contro di loro.

• In ultimo, alcuni credono abbastanza difeso e scusato il furto perché, essendo oppressi da debiti, non se ne possono liberare altrimenti che rubando. Con costoro bisogna ragionare così: non c’è debito più grave e da cui più sia oppresso il genere umano, di quello che ricordiamo ogni giorno nella divina preghiera: «Rimetti a noi i nostri debiti» (Mt. 6, 12); per cui è proprio da stolti preferire di essere debitori verso Dio, cioè peccare, per pagare quel che si deve agli uomini. Infatti è molto meglio essere gettati in carcere, che venir condannati agli eterni supplizi dell’inferno, essendo molto più grave esser condannato dal tribunale di Dio che da quello degli uomini. Queste persone devono, con suppliche, chiedere aiuto e pietà a Dio, da cui possono ottenere quel che loro occorre.

• Non manca, poi, chi, per scusare il furto, ricorre ad altre ragioni, che però ai Parroci prudenti e diligentissimi del loro ufficio non sarà difficile di ribattere in modo da poter avere un giorno un gregge zelante nelle buone opere (Tit. 5, 14).