Comunicato numero 66. Il quinto comandamento

Stimati Associati e gentili Sostenitori, studiamo il quinto dei comandamenti: «Non ammazzare», usando il semplice Catechismo del Santo Concilio di Trento.

• Spiegazione del quinto comandamento. L’insigne felicità promessa ai pacifici, che saranno chiamati figli di Dio (Mt. 5, 9), deve stimolare in sommo grado i Pastori a spiegare ed inculcare con assidua diligenza, ai fedeli l’osservanza di questo comandamento; non v’è modo migliore di fondere le volontà umane nel rispetto universale e generoso di questo precetto, rettamente spiegato. Se ciò si verificherà, gli uomini, strettamente affratellati in un saldo consenso spirituale, conserveranno bene la pace e la concordia. Quanto sia necessario spiegare questo precetto risulta dalla circostanza che, dopo il diluvio universale, fu questa la prima proibizione emanata da Dio agli uomini: «Del vostro sangue farò vendetta sopra qualsiasi animale e faro vendetta della uccisione di un uomo sopra l’uomo» (Gn. 9, 5). Nel Vangelo, là dove il Signore spiega le antiche leggi, questa è al primo posto come si legge in San Matteo: «è comandato: Non ammazzare»; con tutto quel che segue nel passo indicato (5, 21). I fedeli dal canto loro devono prestare attento e volenteroso ascolto a questo comando. La sua forza vale a tutelare la vita di ciascuno. Con le parole infatti: Non ammazzare, è perentoriamente vietato l’omicidio. Perciò ciascuno deve accoglierlo con sì viva prontezza come se, con minaccia dell’ira di Dio e di altre gravissime pene stabilite, fosse tassativamente vietata la lesione di questo o quell’individuo. Come tale precetto è confortante ad essere ascoltato, così l’eliminazione del delitto che esso proibisce deve recare soddisfazione.

• Eccezioni al quinto comandamento. Spiegando il contenuto di questa legge, il Signore mostra che essa comprende due elementi: il primo, negativo: divieto dell’uccisione; il secondo, positivo: ingiunzione di estendere la nostra concorde e caritatevole amicizia anche ai nemici, per avere pace con tutti, sia pure affrontando con pazienza ogni contrarietà. Enunciata la legge che vieta di uccidere, il Parroco dovrà subito indicare le uccisioni che non sono proibite. Non è infatti vietato di uccidere animali. Se Dio ha concesso agli uomini di nutrirsene, deve essere lecito ucciderli. In proposito dice sant’Agostino: Non dobbiamo applicare la formula «non ammazzare» ai vegetali, cui manca ogni facoltà sensibile, né agli animali irragionevoli, che non sono collegati a noi da alcuna virtù razionale (La città di Dio, I, 20).

• Altra categoria di uccisioni permessa è quella, che rientra nei poteri di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti. Applicando tale facoltà, i magistrati non solamente non sono rei di omicidio, ma, al contrario, obbediscono in una maniera superiore alla Legge divina, che vieta di uccidere, poiché il fine della legge è la tutela della vita e della tranquillità umana. Ora, le decisioni dei magistrati, legittimi vendicatori dei misfatti, mirano appunto a garantire la tranquillità della vita civile, mediante la repressione punitiva dell’audacia e della delinquenza. Ha detto David: «Sulle prime ore del giorno soppressi tutti i peccatori del territorio, onde eliminare dalla città del Signore tutti coloro che compiono iniquità» (Ps. 100, 8).

• Per le medesime ragioni non peccano neppure coloro che, durante una guerra giusta, non mossi da cupidigia o da crudeltà, ma solamente dall’amore del pubblico bene, tolgono la vita ai nemici. Vi sono anzi delle uccisioni compiute per espresso comando di Dio. I figli di Levi non peccarono quando in un giorno solo uccisero tante migliaia di uomini; dopo di che, Mosè rivolse loro le parole: «Oggi avete consacrato le mani vostre a Dio» (Ex. 32, 29).

• Infine non è reo di trasgressione a questo precetto chi, non di spontanea volontà e di proposito, ma per disgrazia uccide un altro. È scritto nel Deuteronomio: «Chi per caso abbia colpito il suo prossimo, e si riesca a provare che né ieri, né ieri l’altro nutriva odio per il colpito, ma che recandosi insieme a far legna nel bosco, nel tagliare i tronchi, la scure gli sfuggì di mano e il ferro spiccato dal manico colpi l’amico e l’uccise» (XIX), tale uccisione non compiuta per atto di volontà e studiatamente, non può assolutamente imputarsi a colpa. Lo conferma la sentenza di sant’Agostino: «Nessuno pensi che possa esserci addebitato ciò che facciamo per il bene o per il lecito, anche se importi, senza il nostro volere, qualcosa di male» (Lett. XLVII, 5; CCIII, 6).

• Ma anche in tali casi tuttavia può talora esserci colpa: se cioè l’uccisore involontario sia intento a cosa ingiusta, o se l’uccisione si verifichi per negligenza e imprudenza, non essendo state valutate tutte le circostanze. Un esempio del primo caso: se uno percuotendo con un pugno o un calcio una donna incinta, provochi l’aborto, pur essendo ciò fuori dell’intenzione del percussore, non si può dire immune da colpa, non essendo in alcun modo lecito percuotere una donna incinta. Che la legge poi non colpisca chi uccide un altro in difesa della propria vita, avendo però adoperato ogni cautela, è evidente.

• Azioni proibite dal quinto comandamento. Queste sono dunque le categorie di uccisioni non comprese nella Legge. Fatta eccezione per esse, tutte le altre sono proibite, qualunque sia la qualità dell’uccisore, dell’ucciso e la modalità dell’atto omicida. Per quanto riguarda la persona dell’uccisore, nessuno sfugge al precetto: «non il ricco, non il potente, non il padrone, non i genitori. A tutti è vietato di uccidere, ripudiata ogni considerazione personale».

• Per quanto riguarda gli uccisi, anche qui la Legge ha un ambito universale, né c’è individuo per quanto umile e misero, il quale non sia tutelato dalla validità di questa legge. Né ad alcuno è lecito togliersi quella vita su cui nessuno ha così pieno potere da essere in diritto di sopprimerla quando voglia. Il tenore stesso del precetto lo indica, poiché non è detto: Non ammazzare altri; ma puramente e semplicemente: Non ammazzare.

• Infine avendo di mira i vari modi con cui può esser data la morte, neppure a questo proposito sussistono eccezioni. È vietato infatti non solamente uccidere chicchessia con le proprie mani, col ferro, con pietra, con bastone, con laccio o col veleno, ma anche il procurare la morte col consiglio, con l’aiuto, col concorso e qualsiasi altro mezzo. Sono evidenti l’ottusità e la fatuità degli Ebrei che ritenevano di rispettare la legge astenendosi semplicemente dall’uccidere con le proprie mani. Il cristiano che dalla parola di Gesù Cristo ha appreso come tale legge abbia un valore spirituale ed impone non solo di conservare pure le mani, ma casto ed incontaminato lo spirito, non ritiene davvero sufficiente quel che gli Ebrei credevano così di adempiere a sufficienza. Il Vangelo insegna che non è lecito neppure farsi vincere dall’ira. Il Signore infatti ha detto: «Ma io vi dico: chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio. E chi avrà detto al suo fratello: Raca, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: Stolto, verrà condannato al fuoco della Geenna» (Mt. 5, 22). [«Raca» è un termine ingiurioso d’incerta origine e praticamente impossibile a tradursi esattamente; forse per questo è stato lasciato nel suono originale. In aramaico «recà» significa vuoto, stupido. Spiegazione di mons. Salvatore Garofalo, ndR.].

• Da queste parole risulta nettamente che non è esente da colpa chi si adira contro il proprio fratello, anche se chiuda l’ira nel proprio animo. Chi poi all’ira concede una espressione esterna, pecca gravemente; e più gravemente pecca chi osi trattare duramente e svillaneggiare il proprio simile. Naturalmente tutto ciò è vero nel caso che non sussista alcuna plausibile ragione per l’ira; poiché c’è una legittima ragione di sdegno, ammessa da Dio e dalle leggi. E si verifica quando ci leviamo contro le colpe di coloro che sono sottoposti al nostro comando e alla nostra potestà. Lo sdegno del cristiano deve però prorompere non dai sensi, ma dallo Spirito Santo, dovendo noi essere i suoi templi, e dimora di Gesù Cristo (1 Cor. 6, 19).

• Molte parole del Signore si riferiscono alla perfezione di questa legge. Ad esempio: «Non opporre resistenza al male; Se ti avranno percosso sulla guancia destra, presenta anche l’altra; A chi vuol bisticciarsi con te per aver la tua tunica, dai pure il mantello; Continua ad andare per altre due miglia con chi ti avrà bistrattato già per un miglio intero» (Mt. 5, 39).

• L’omicidio. Da quanto siamo venuti dicendo è lecito arguire quanto siano proclivi gli uomini alle colpe vietate da questo comandamento, e quanto numerosi siano coloro che, se non con le mani, almeno con l’animo cadono in questo peccato. E poiché le sacre Scritture indicano nettamente i rimedi salutari contro questo pericoloso morbo, è dovere del Parroco farne diligente esposizione ai fedeli, insistendo specialmente sulla gravità mostruosa dell’omicidio, quale traspare da copiosissime ed esplicite testimonianze della sacra Scrittura (Gn. 4, 10; Gn. 9, 16; Lv. 24, 17). L’abominazione di Dio contro l’omicidio giunge nella Bibbia fino a punire le bestie ree di omicidio, comandando che sia ucciso l’animale che abbia leso un essere umano (Ex. 21, 28). Anzi, la principale ragione per cui Dio volle che ogni uomo avesse orrore del sangue, è appunto qui: affinché conservasse integralmente mondi dal riprovevole omicidio l’animo e le mani. Sono in realtà omicidi del genere umano, e quindi nefasti avversari della natura, tutti coloro che, per quanto è loro dato, sovvertono l’opera universale di Dio sopprimendo l’uomo per il quale Dio dichiara di avere creato il mondo visibile (Gn. 1, 26). E poiché è scritto nella Genesi ch’è vietato di commettere omicidi, avendo Dio creato l’uomo a Sua immagine e somiglianza, fa veramente una sfacciata ingiuria a Dio, quasi volesse menare con violenza le mani contro di Lui, chiunque toglie di mezzo una Sua immagine (Gn. 9, 6). Meditando ciò con animo ispirato, David pronunciò gravi lamenti contro i sanguinari, quando disse: «Rapidi sono i loro passi verso lo spargimento di sangue» (Ps. 13, 36). Non disse egli puramente: uccidono, ma: spargono sangue, quasi a far risaltare la detestabilità del delitto e la smisurata crudeltà dell’omicida. E per illustrare come siano violentemente spinti dall’istinto diabolico al delitto, premette: Corrono rapidi i loro passi.

• Azioni inculcate dal quinto comandamento. In sostanza quanto nostro Signore Gesù Cristo prescrive che sia osservato con questo comandamento, mira a farci conservare rapporti pacifici con tutti. Dice infatti, interpretandolo: «Se tu stai per fare l’offerta all’altare e là ti viene alla memoria che un tuo fratello ha qualche cosa contro di te, abbandona la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti col tuo fratello e poi ritorna a fare la tua offerta» (Mt. 5, 23), con quel che segue. Il Parroco spiegherà tutto ciò in modo che s’intenda come tutti, senza eccezione, devono essere inclusi nel medesimo sentimento di carità. E a tale sentimento, nella spiegazione del precetto, stimolerà quanto più sarà possibile i fedeli, perché in esso riluce sopra tutto la virtù dell’amore del prossimo.

• Infatti, vietandosi apertamente con questo comandamento l’odio, poiché chi odia il proprio fratello è omicida (1 Giov. 3, 15), ne segue che c’è qui implicito il precetto dell’amore e della carità. E se nel comandamento che studiamo è imposta la legge della carità e dell’amore, nel medesimo tempo sono formulati i precetti di tutti quei servizi ed atti che sogliono scaturire dalla carità. «La carità è paziente», dice san Paolo (1 Cor. 13, 4); anche la pazienza dunque ci è comandata; e con essa, secondo la parola del Salvatore, noi saremo in possesso delle anime nostre (Lc. 21, 19).

• Segue, come prossima compagna della carità, la beneficenza, perché «la carità è benigna». La virtù della benignità o della beneficenza possiede una sfera vasta, esplicandosi sopratutto nel provvedere ai poveri il necessario, agli affamati il cibo, agli assetati la bevanda, ai nudi il vestito. Essa vuole che la nostra liberalità vada con maggiore larghezza a chi più abbisogna del nostro soccorso. Le opere della beneficenza e della bontà, per sé già cosi meritevoli, assumono un valore insigne, se dirette ai nostri nemici. Disse infatti il Salvatore: «Amate i vostri nemici; fate del bene a chi vi odia» (Mt. 5, 44). Analogamente ammonisce l’Apostolo: «Se il tuo avversario soffre la fame, nutrilo; se ha sete dagli da bere; così facendo, accumulerai sul suo capo carboni ardenti. Non ti far vincere dal male, ma vinci il male col bene» (Rm. 12, 20). Infine, volendo esporre tutta la legge della carità, che è benigna, riconosceremo che il precetto ordina di uniformare sempre le nostre azioni a mitezza, a dolcezza e a tutte le altre virtù affini.

• Però il compito più alto e più riboccante di carità, nel quale dobbiamo con maggior cura esercitarci, è quello di perdonare e di dimenticare con cuore sereno le ingiurie ricevute. Come abbiamo detto, la sacra Scrittura ammonisce insistentemente di farlo senza riluttanza, non solo dichiarando beati coloro che ciò praticano (Mt. V, 4, 9, 44), ma proclamando perdonate da Dio le loro colpe (Eccli. XXVIII, 2; Mt. 4, 14; Mc. 11, 25; Lc. 6, 37; Efes. 4, 32; Col. 3, 13) - ed imperdonabili quelle di coloro che vi si rifiutano o sono negligenti nel farlo (Eccli. XXVII, 1; Mt. 6, 15; 18, 34; Mc. 11, 26).

• I motivi di perdonare le offese. Poiché la brama della vendetta è quasi innata nello spirito degli uomini, il Parroco usi tutta la diligenza non solo nell’insegnare, ma proprio nell’inculcare e persuadere i fedeli che dimenticare le offese e perdonarle è stretto dovere del cristiano. Ed essendo copiose le testimonianze degli scrittori sacri in proposito, ne faccia tesoro per spezzare la pertinacia di coloro che hanno l’animo indurito nella voluttà della vendetta. Abbia perciò pronte le ponderate ed opportunissime argomentazioni dei Padri, fra cui tre meritano speciale menzione.

• Innanzi tutto, chi si ritiene ingiuriato deve convincersi che la causa principale del fatto non va ricercata in colui contro il quale agogna vendetta. L’ammirabile Giobbe gravemente danneggiato da Sabei, da Caldei e dal demonio, essendo uomo retto e pio, non tiene conto di loro, ma esce in queste pie e sante parole: «Il Signore donò, il Signore tolse» (Giob. 1, 21). Sull’esempio e sulla parola di quell’uomo pazientissimo, i cristiani vogliano persuadersi che in verità quanto soffriamo in questa vita, deriva da Dio, padre ed autore di ogni giustizia come di ogni misericordia. La Sua immensa misericordia non ci punisce come avversari, ma ci corregge e castiga come figli.

• A ben considerare le cose, gli uomini sono qui semplicemente ministri ed emissari di Dio; pur potendo un uomo odiare malvagiamente un altro e desiderargli ogni male, non può in realtà nuocergli se non lo permetta Dio. Persuasi di ciò, Giuseppe sostenne serenamente gli empi propositi dei fratelli (Gn. XLV, 5), e David le ingiurie di Simei (2 Re, 16, 10). In queste considerazioni rientra l’argomento svolto con grande dottrina dal Crisostomo, secondo il quale ciascuno è causa del proprio male. Infatti coloro che si ritengono maltrattati, se ben considerino la loro situazione, si accorgeranno di non aver subito ingiuria o danno dagli altri, potendo le lesioni e le offese provenire apparentemente dall’esterno; ma siamo in realtà noi stessi la causa del nostro male, contaminando l’animo con le nefaste passioni dell’odio, della cupidigia, dell’invidia.

• In secondo luogo, due insigni vantaggi ricadono su coloro che, spinti dal santo amore di Dio, perdonano di buon grado le offese ricevute. Il primo è questo: Dio ha promesso che chi rimette agli altri i torti, otterrà il perdono delle proprie colpe (Mt. 6, 14); donde appare quanto Gli sia gradito simile atto di virtù. L’altro sta nella nobiltà e nella perfezione conseguite da chi perdona. Dimenticando le ingiurie, diveniamo in certo modo simili a Dio, il quale fa sorgere il sole egualmente sui buoni e sui cattivi e distribuisce la pioggia su giusti ed ingiusti (Mt. 5, 45).

• Infine, devono essere spiegati gli inconvenienti a cui andiamo incontro, non perdonando le ingiurie a noi recate. Perciò il Parroco farà considerare a coloro che non vogliono perdonare ai propri nemici, come l’odio non solo sia un grave peccato, ma divenga più grave col persistervi. Chi è padroneggiato da questo sentimento, assetato del sangue dell’avversario, e pieno di speranza nella vendetta, trascorre notte e giorno in un tale permanente sconvolgimento malefico dello spirito che non sembra mai sgombro dal fantasma della strage o di qualche azione nefasta. Costui giammai, o solo da straordinari motivi, potrà essere indotto a perdonare del tutto, o a dimenticare in parte le ingiurie. A buon diritto viene paragonato alla ferita su cui il dardo è rimasto infitto.

• Sono molteplici in verità i peccati stretti insieme da comune vincolo nella colpa unica dell’odio. San Giovanni disse chiaramente in proposito: «Chi odia il proprio fratello giace nelle tenebre, e procede nell’oscurità, ignaro della sua meta; le tenebre tolsero il lume dai suoi occhi» (1 Gv. 2, 11), cosicché è destinato a cadere di frequente. Come, ad esempio, potrebbe approvare i detti o i fatti di colui che odia? Di qui i fallaci giudizi temerari, le ire, le invidie, le maldicenze e simili manifestazioni di malevolenza, che vanno a colpire anche chi è legato da parentela o da amicizia alla persona dell’odiato. Da una colpa ne nascono così decine; e non a torto si dice che questo è il peccato del demonio, che fu omicida fin dall’inizio. Il Figlio di Dio, nostro Signore Gesù Cristo, disse appunto che i Farisei erano generati dal diavolo proprio perché desideravano di metterlo a morte (Gv. 8, 44).

• Quanto abbiamo detto fin qui riguarda le ragioni che possono addursi per inculcare la determinazione di questo peccato. Ma nei monumenti della letteratura sacra è facile anche rinvenire i rimedi più opportuni a tanto flagello. Il primo e il più efficace è l’esempio del nostro Salvatore, che noi dobbiamo proporci di imitare. Sebbene la più tenue ombra di mancanza non potesse offuscare il suo immacolato candore, quantunque percosso con verghe, coronato di spine e confitto sulla croce, pronunciò queste parole, ricche di misericordia: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc. 23, 34). L’effusione di questo sangue, secondo la testimonianza dell’Apostolo, parla ben più eloquentemente che quello di Abele (Ebr. 12, 24).

• Un secondo rimedio viene proposto dall’Ecclesiastico, e consiste nell’aver presenti la morte ed il giorno del giudizio. Ricorda, esso dice, i tuoi ultimi eventi, e non peccherai in eterno (Eccl. 7, 40). In altri termini: pensa molto spesso che tra poco ti coglierà la morte; e poiché in quell’ora suprema sarà per te d’interesse massimo impetrare l’infinita misericordia di Dio, è necessario che essa ti sia dinanzi ora e sempre. Così quella bramosia di vendetta che cova in te, si estinguerà prontamente, non esistendo mezzo più valido, a ottenere la misericordia divina, del perdono delle ingiurie e dell’amore verace per coloro che, con la parola o con le azioni, offesero te o i tuoi.