Comunicato numero 180. Il discorso escatologico (parte 1)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, «oggi ricorre il 75° anniversario dello sterminio di 200 bambini milanesi, avvenuto il 20 ottobre 1944 ad opera delle bombe angloamericane nel quartiere di Gorla. Nessun presidente della repubblica italiana e ambasciatore degli Stati Uniti d’America in Italia si sono recati in questi 75 anni sul luogo dell’eccidio. (Il Centro Studi Giuseppe Federici ha pubblicato) l’elenco delle vittime senza voler alimentare odio o vendette: tutte le anime delle vittime e dei carnefici sono state giudicate da N. S. Gesù Cristo, che ha dato a ciascuna di esse “secondo i meriti, il premio o la pena eterna” (dall’Atto di fede)». Approfondimenti sul sito del Centro Studi Giuseppe Federici. Finalmente l’Abate Ricciotti ci illustra il famoso Discorso escatologico di Nostro Signore Gesù Cristo. Suddivideremo la dotta dissertazione in due parti, la prima verrà pubblicata adesso, mentre la seconda la prossima settimana.

• § 523. La giornata volgeva oramai al tramonto; Gesù s’avviò per uscire dal Tempio e passar la notte fuori della città, come soleva fare in quella settimana (§ 510). Attraversato l’atrio dei gentili, egli fiancheggiò le sottocostruzioni che s’elevavano lungo la valle del Cedron ed offrivano uno spettacolo di vera potenza e magnificenza. A quella vista tornarono spontaneamente alla memoria dei discepoli che lo seguivano le ultime parole di lui, pronunziate poco prima contro i Farisei e ch’erano balenate come tetra minaccia: «Ecco, è lasciata a voi la vostra casa deserta». La prima e più amata casa di ogni buon Israelita era la casa del Dio Jahvè, il Tempio della città santa e unico di tutto il mondo; quel Tempio non poteva non essere eterno come era richiesto dalla fede comune e anche dimostrato dalla grandiosità delle sue costruzioni. In che senso, dunque, aveva Gesù potuto dire che quella casa sarebbe rimasta deserta? Si ricollegava forse questa predizione con le altre angosciose predizioni fatte nel passato dal maestro? Ci fu qualche discepolo che volle scandagliare il pensiero di Gesù: senza darsene l’aria, gli si avvicinò mentre la comitiva sfilava lungo le sottocostruzioni del Tempio e cominciò ad esaltare quell’edificio gigantesco con termini entusiastici, non dissimili certamente da quelli che si ritrovano nelle ampie descrizioni di Flavio Giuseppe (Antichità giud., XV, 380-425; Guerra giud., V, 184-226). Le lodi del resto non erano esagerate perché, stando a questo testimonio oculare, appunto quelle sottocostruzioni e le parti del Tempio rivolte verso il Cedron presentavano il seguente aspetto: «Il tempio inferiore, nella parte più bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 150 metri) e in certi posti anche più: tuttavia l’intera profondità delle fondamenta non appariva, perché (i costruttori) colmarono buona parte dei burroni volendo livellare le stradicciuole della città. Nella costruzione (delle fondamenta) furono (impiegate) pietre di 40 cubiti di grandezza (20 metri) ... Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti tutti i portici, e sostenuti da colonne di 25 cubiti d’altezza (metri 12,50), ch’erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza naturale, la levigatura e l’aggiustamento offrivano uno spettacolo ammirevole ...» (Guerra giud., V, 188-191). Senonché le parole entusiastiche dei discepoli non riuscirono a scuotere la pensierosità di Gesù; solo dopo qualche tempo egli, rialzando il capo e dando uno sguardo fugace alle decantate costruzioni, rispose gravemente: «Non vedete tutte queste cose? In verità vi dico non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta». E subito si chiuse nel suo silenzio. I discepoli rimasero come fulminati da quelle parole; la pensierosità del maestro si diffuse sui discepoli, e la comitiva proseguì, oramai muta, il cammino, attraversando il Cedron e poi risalendo sull’opposto pendio del monte degli Olivi. Quando fu sulla cima del monte, Gesù si sedette di fronte al Tempio (Marco, 13, 3) e rimase lì muto a guardare: lo si sarebbe detto un pilota che dalla riva riguardi accoratamente la sua amata nave su cui ha navigato lunghi anni, ma che ha dovuto abbandonare perché sa che di lì a pochi momenti sprofonderà per sempre. Gli sgomentati discepoli approfittarono di quella sosta per tornare sull’argomento di prima e domandare al maestro qualche schiarimento sulla sua nerissima predizione. Lo interrogavano privatamente Pietro e Giacomo e Giovanni e Andrea; e Gesù rispose con quello che comunemente è designato come il «discorso escatologico».

• § 524. Il discorso escatologico è riferito dai soli Sinottici (Matteo, cap. 24; Marco, cap. 13; Luca, 21, 5-36) ma con le solite divergenze che si riscontrano anche altrove fra loro; inoltre Luca ha già anticipato al cap. 17 vari elementi di questo discorso (§ 474 segg.), e lo stesso in minor parte sembra aver fatto anche Matteo (10, 17-23). È dunque palese anche qui l’intervento redazionale dei singoli Evangelisti, del quale il lettore odierno deve tener conto per una retta esegesi del discorso. Ma bisogna aver presente anche un altro fatto importante. Le tre redazioni del discorso presso i Sinottici dipendono come al solito dalle rispettive catechesi ch’essi rappresentano (§ 110 segg.), e rispecchiano perciò l’animus Ecclesia; ora tale animus, nel presente caso, si trovava in condizioni di delicatezza estrema essendo pervaso da quella perplessità e ansia dubbiosa che molti punti del discorso avevano suscitata nella mente dei primitivi cristiani, non esclusi gli Evangelisti. Si confronti infatti l’impressione che il discorso fa in un lettore odierno con l’impressione ch’esso faceva nei fedeli della prima generazione cristiana, e si ammetterà senza esitazione che la giusta interpretazione del discorso è oggi assai più facile di allora. In realtà il tempo è spesso un ottimo coefficiente per una retta esegesi; e il lettore odierno, che ha a sua disposizione venti secoli di storia, può oggi comprendere bene almeno alcuni punti del discorso escatologico, mentre quei primitivi cristiani non avevano questo prezioso aiuto. Il discorso, infatti, tratta di due grandi avvenimenti, ambedue futuri in un tempo più o meno remoto, ma idealmente ricollegati in qualche maniera fra loro. Come futuri, questi avvenimenti erano ambedue velati di mistero per chi aveva ascoltato il discorso dalla bocca di Gesù o degli Apostoli; poco più tardi, durante la stessa prima generazione cristiana, il meno remoto dei due avvenimenti accadde di fatto e allora una parte del mistero fu svelata tuttavia, per contraccolpo, l’altra parte s’avvolse in un’oscurità più ansiosa e palpitante. Se si era avverata così puntualmente la prima predizione che appariva idealmente ricollegata con la seconda, non si avvererebbe presto anche la seconda? Il primo avvenimento non era come l’immediato precursore del secondo? E su queste domande i primi cristiani rifletterono trepidanti per molti anni. Oggi si riconosce concordemente che il primo dei due fatti si è avverato durante la prima generazione cristiana, ma non sorgono più le ansie di quella generazione riguardo al susseguirsi immediato del secondo fatto: i venti secoli di storia hanno attribuito il loro giusto valore alle parole di Gesù che ponevano tra i due fatti un interstizio di tempo incommensurabile. Fatta però la luce sul primo fatto e sull’interstizio, l’oscurità si è raccolta oggi tutta sul secondo fatto, riguardo al quale il lettore odierno è non meno dubbioso della prima generazione cristiana, sebbene non ansioso come quella. Confrontando poi accuratamente fra loro le tre recensioni del discorso, e anche i tratti paralleli solitari, appare molto probabile che la sua forma più antica e meno sottoposta a redazione sia quella trasmessaci da Marco, ossia la forma della catechesi di Pietro (§ 128 segg.): prendendo questa per guida, senza perdere d’occhio le altre testimonianze, possiamo riassumere la sostanza del discorso nella maniera seguente.

• § 525. La domanda rivolta a Gesù dai quattro discepoli sulla cima del monte era consistita in queste parole: «Dicci, quando saranno queste cose, e quale (sarà) il segno allorché stiano per conterminarsi tutte queste cose?» (Marco, 13, 4). L’espressione «queste cose» si riferisce la prima volta alla distruzione del tempio, di cui Gesù aveva predetto che non sarebbe rimasto pietra sopra pietra; ma la seconda volta ha certamente un significato più ampio, e si riporta alla catastrofe addirittura universale in cui dovevano aver termine tutte queste cose, cioè il «secolo» o mondo presente, come suggerisce anche il termine «conterminarsi» che è tipico per designare la fine del mondo (§ 638). Ciò del resto è messo fuor d’ogni dubbio dal parallelo Matteo (24, 3), ove la domanda dei discepoli suona: «Dicci, quando saranno queste cose, e quale (sarà) il segno della tua “parusia” e della conterminazione del “secolo”?». I discepoli dunque, al sentire annunziata da Gesù la distruzione del Tempio, avevano ripensato alle varie promesse da lui fatte che il regno d’Iddio sarebbe venuto in possanza (§ 401) e che nella rigenerazione si sarebbe assiso il figlio dell’uomo sul suo trono di gloria (§ 486), nonché ai vari accenni delle parabole, e spontaneamente avevano fuso tutto insieme, contemplando o simultanei o almeno in una immediata concatenazione di tempo ambedue gli avvenimenti, sia quello della distruzione del Tempio sia quello della parusia e della fine del «secolo». Gesù pertanto dovrà rispondere ad ambedue i punti della domanda, quando sarà la distruzione del Tempio e quando la fine del mondo; inoltre dovrà descrivere i segni precursori dell’uno e dell’altro avvenimento. Egli infatti comincia col mettere in guardia i suoi discepoli contro insidie ingannevoli, e perciò nella prima sezione della sua risposta descrive i segni che precederanno la distruzione del Tempio (Marco, 13, 5-23). - Si faranno avanti molti predicatori menzogneri spacciandosi per il Messia e attireranno in errore molti, così pure avverranno guerre, sedizioni, terremoti e carestie in luoghi diversi: «ma tutto ciò non (è) ancora la fine», bensì soltanto «l’inizio delle doglie»; la grande tribolazione infatti si scaricherà direttamente sui discepoli di Gesù, che saranno deferiti a sinedri, sinagoghe e governatori, saranno battuti e imprigionati, saranno traditi dai più stretti parenti, e odiati universalmente a causa della loro fede: ma ciò nonostante e appunto durante questo tempo «in tutte le genti dapprima dev’esser predicata la “buona novella”». Infine la «grande tribolazione» entrerà nella sua stretta finale: l’abominio della desolazione predetto da Daniele (9, 27) sarà stabilito nel Tempio, e Gerusalemme sarà circondata da armate; allora i discepoli rimasti fedeli a Gesù si diano immediatamente alla fuga per salvare le loro vite. Quelli saranno «giorni di vendetta affinché siano adempiute tutte le cose scritte nei libri sacri» (Luca, 21, 22), e sarà «tribolazione quale non è stata siffatta, dal principio della creazione che creò Iddio, fino adesso e non sarà» (cfr. Daniele, 12, 1), sebbene la sua durata sarà abbreviata per far sì che ne scampino gli eletti (Marco, 13, 19-20). Fin qui, come si sarà notato, il discorso non ha fatto alcun accenno al tempo ma solo ai segni della «grande tribolazione». Che poi questa si riferisca alla distruzione del Tempio e di Gerusalemme è dimostrato dai termini impiegati, ed è inoltre confermato dall’importante rilievo che pure Flavio Giuseppe, accingendosi a narrare lo stesso fatto, impiega espressioni somigliantissime, dicendo: «In realtà le sventure di tutti i secoli mi sembrano restare al di sotto confrontate con quelle dei Giudei»  (Guerra giud., I, 12), e definisce anche la guerra tra Roma e la Giudea «la più grande non solo di quelle del nostro tempo ma quasi anche di quelle che udimmo per fama esser scoppiate fra città e città o fra nazioni e nazioni» (ivi, I, 1). Né fa ostacolo la condizione che, alla distruzione del Tempio, «in tutte le genti dapprima dev’essere predicata la “buona novella”»; altrettanto affermava, come di cosa fatta, San Paolo egualmente prima che Gerusalemme fosse distrutta (§ 401). Ora, la distruzione di Gerusalemme avvenne nel quarantennio successivo al discorso, ossia nello spazio di tempo computato dai Giudei come una «generazione». Troviamo infatti che Gesù in seguito - quando ha finito di descrivere i segni e passa a parlare dei tempi - afferma: «In verità vi dico che non passerà questa generazione fino a che tutte queste cose avvengano» (Marco, 13, 30). FINE DELLA PRIMA PARTE.

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Da Vita di Gesù Cristo, imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.