Comunicato numero 162. Il fattore infedele. Il ricco epuloneStimati Associati e gentili Sostenitori, Vi siamo davvero grati per la numerosa, devota e fervorosa partecipazione allo scorso «Pellegrinaggio della Tradizione», processione di 22 km da Osimo a Loreto in onore della Virgo Lauretana. Un appuntamento di vera amicizia, di amici della Chiesa, amici del Papato, amici del Clero, amici dei Santi e dei Martiri, amici di Nostro Signore Gesù Cristo e della Beata Vergine Maria. Cogliamo l’occasione per segnalare la relazione sulla vera amicizia, tratta soprattutto dagli studi di Cornelio ALapide, pubblicata sul nostro canale Youtube. Veniamo al consueto studio della Sacra Scrittura usando la preziosa «Vita di Gesù Cristo» dell’Abate Ricciotti, che oggi ci parla del fattore infedele e del ricco epulone.

• § 470. Oltre ad essere lo scriba della misericordia, San Luca è anche l’Evangelista della povertà (§145): ecco quindi che nella collana di parabole che stiamo esaminando, alle perle sulla misericordia divina seguono altre sulla povertà umana, anche queste conservate dal solo forziere di Luca. Che il rinunziare alla ricchezza fosse un atto di accortezza da parte del seguace di Gesù, fu da lui mostrato con la seguente parabola. Ci fu un uomo ricco che aveva un fattore, e costui fu accusato presso il padrone di dissiparne i beni; perciò fu chiamato dal padrone, che gli disse seccamente: «Mi sono giunte all’orecchio cattive voci sul conto tuo; presentami al più presto i conti della tua amministrazione!». - Uscito di là, il fattore pensò ai casi suoi, e si vide perduto se non avesse trovato qualche ripiego per campare la vita nella sua vecchiaia. Cominciò quindi a ragionare: «Adesso che mi sarà tolta l’amministrazione, come potrò mantenermi? A lavorare nei campi non sono più capace; a domandare l’elemosina mi vergogno». Dopo averci ripensato su lungamente, decise di far ricadere sul padrone il peso del suo sostentamento per mezzo di un’astuta truffa. Si trattava di diminuire falsamente il debito che ciascun colono aveva col padrone, affinché poi quei debitori fraudolentemente beneficiati si mostrassero grati col fattore ricompensandolo. Chiamato perciò un colono gli domandò: «Quanto devi al mio padrone?» - Quello rispose: «Cento barili d’olio». - Il fattore allora: «No, prendi qua la ricevuta e scrivi cinquanta!». - Cosicché a questo primo debitore era rimessa la metà del debito. Chiamato poi un altro, gli fece la stessa domanda; e quello rispose: «Devo cento misure di grano». - E il fattore: «No, prendi qua la ricevuta, e scrivi ottanta!». - Naturalmente con questo metodo egli trattò tutti gli altri coloni del padrone, i quali gli furono ben grati nel presente e anche nel futuro. E in tal modo il fattore esonerato provvide alla sua vecchiaia. Un furto, senza dubbio. Ma un furto furbo, ben congegnato, che mostra l’accortezza e la previdenza di quel fattore, riluttante a finire nella miseria. Qui appunto sta la forza della parabola, la quale - astraendo dalla disonestà del furto che non entra in considerazione - converge tutta su quella accortezza e quella previdenza. La parabola, infatti, prosegue dicendo che quel padrone, parlando della frode di cui era stato vittima, lodò il suo fattore truffaldino perché prudentemente aveva agito. Era un uomo di spirito quel padrone, e sapeva prendere da gran signore i dispiaceri della vita mettendone in luce gli aspetti interessanti! La parabola, quindi, termina ammonendo che i figli di questo secolo sono più prudenti dei figli della luce fra (quelli della) loro generazione, cioè confrontati con i membri della rispettiva categoria. Ma a spiegare meglio il funzionamento di questa prudenza, Gesù aggiunse: «E io vi dico: “Fatevi degli amici per mezzo dell’iniquo Mammona (§ 331), affinché quando (esso) venga a mancare vi accolgano negli eterni tabernacoli”». Con queste parole il funzionamento della prudenza è chiaro, e la parabola, trasportata ad un’atmosfera superiore, è applicata con precisione. Le ricchezze terrene siano spese tutte per acquistare, non già beni terreni che sono egualmente transitori e fallaci, bensì beni perenni e sicuri. E in qual modo? Impiegando quelle ricchezze nel beneficare i poveri. Questa beneficenza è un frutto imperituro delle ricchezze, perché i beneficati diventano gli amici del beneficante e al crollo di questo secolo lo ricompenseranno accogliendolo negli eterni tabernacoli. Con ciò riappare evidentissima la sanzione ultraterrena che è alla base di tutta la dottrina di Gesù (§ 319): erogare le proprie ricchezze in vista e in attesa della vita futura. In quella suprema attesa (§ 450 segg.) la povertà è somma prudenza.

• § 471. I Farisei, che udirono l’esposizione di questi principii ma non partecipavano alla suprema attesa, trovarono che tutto ciò era sciocco. Udivano tutte queste cose i Farisei, che erano amatori del denaro, e lo beffeggiavano. E che modo di parlare era quello? Buttare via il proprio denaro per rimaner poi nudi come un lumacone senza guscio? Queste erano, non soltanto pazzie da mentecatto, ma anche bestemmie da eretico! La legge ebraica parlava ben chiaro: la prosperità materiale era una benedizione di Dio e un premio per chi osserva le norme della morale religiosa (cfr. Levitico, 26, 3 segg.), mentre la povertà e la miseria erano il retaggio degli empi secondo l’antica tradizione ebraica (cfr. Giobbe, 8, 8 segg.; 20, 4 segg.; 27, 13 segg.). Se dunque Gesù era povero, peggio per lui: era segno che Dio non gli concedeva il premio dei giusti perché non lo meritava; ma cessasse di sconvolgere la Legge e la tradizione ebraica (Questo ragionamento non è riportato da San Luca, ma si può ragionevolmente ricostruire in maniera approssimativa sulla base della risposta di Gesù in Luca, 16 15-16). Gesù, riferendosi al vero motivo che faceva parlare i Farisei in difesa delle ricchezze, rispose: «Voi siete coloro che si dimostrano giusti davanti agli uomini (in quanto cioè si spacciavano per giusti perché ricchi), ma iddio conosce i vostri cuori; perché ciò che è eccelso tra gli uomini è abominio davanti a Iddio». Quanto alla Legge e alla tradizione, questo delle ricchezze era uno dei casi in cui l’antica Legge doveva essere compiuta e perfezionata (§ 322): infatti «la Legge e i Profeti, fino a Giovanni (il Battista); da allora, del regno d’Iddio si dà la buona novella e ognuno fa violenza verso di esso» (Luca, 16, 15-16). La Legge allettava i suoi seguaci anche con la promessa delle ricchezze; ma dopo Giovanni il Battista la [vecchia] Legge [ebraica] è stata sostituita dal regno di Dio, che non promette più beni materiali ed esige anzi la violenza morale di distaccarsi da essi. Del resto lo stesso spirito intimo della Legge antica non induceva ad attaccarsi alle ricchezze ma a superarle, perché esse erano proposte come mezzo e non come fine: chi si fermava a questo mezzo allettativo, tradiva lo spirito della Legge. Questo è l’insegnamento che Gesù illustrò con una nuova parabola strettamente aderente a vari concetti del giudaismo, tanto da apparire sotto un certo aspetto la più giudaica delle parabole di Gesù.

• § 472. C’erano due Giudei, uno ricchissimo, l’altro poverissimo. Il ricco portava vesti fatte di porpora di Tiro e di bisso d’Egitto, e ogni giorno teneva conviti interminabili. Il povero, che aveva il comunissimo nome di Lazaro, giaceva ricoperto di piaghe sulla strada presso l’atrio del ricco; di là egli sentiva il lontano frastuono dei conviti del ricco e suo sogno supremo sarebbe stato saziarsi di ciò che cadeva da quelle mense, ma nessuno badava a lui: anzi, pur in quella sua povertà così nera, sembra che egli recasse qualche utilità al ricco, giacché i cani (forse di costui) ogni tanto al passargli davanti si fermavano a leccare il marciume delle piaghe che gli ricoprivano il corpo. Ma, come Dio volle, morirono ambedue [il ricco epulone ed il povero Lazzaro], e allora le parti si invertirono. Morto prima Lazaro, vennero gli angeli e lo trasportarono di peso su in alto nel luogo di felicità eterna deponendolo nel Seno di Abramo [o Limbo dei Padri, luogo che ospitava le anime dei giusti prima della «discesa agli inferi» di Nostro Signore - Approfondimenti sul Limbo], fra le braccia del privilegiato «amico di Dio» capostipite degli Ebrei. Morto poi il ricco, fu sepolto con gran pompa; la quale però fu anche l’ultima, giacché dalla sua splendida tomba egli rotolò giù nella Sheol [§ 79 - nell’Inferno], ove si trovò immerso in atroci tormenti. Capovoltasi in tal modo la situazione, il già ricco alzando gli occhi dalla Sheol vide su in alto Abramo che sorreggeva dolcemente in seno il già povero Lazaro. Alzò allora anche la voce gridando: «Padre Abramo! Abbi pietà di me, e invia Lazaro affinché bagni d’acqua la punta del suo dito e refrigeri la mia lingua, perché spasimo in questa fiamma!». Ma Abramo disse: «Figlio! Ricordati che ricevesti i tuoi beni nella vita tua e Lazaro egualmente i mali; adesso però qui (egli) è consolato, tu invece spasimi». Il giusto Abramo fa rilevare la giustizia della doppia sorte: poiché il ricco è stato «dimostrato giusto davanti agli uomini» (Luca, 16, 15) dalle sue ricchezze e la sua religione è consistita tutta in questo, egli è già stato ricompensato sufficientemente; poiché d’altra parte «ciò ch’è eccelso fra gli uomini [fra i mondani] è abominio davanti a Iddio», adesso davanti a Dio le sue passate ricchezze [usate male] diventino per lui ragione di sofferenza. Precisamente il contrario, per la ragione inversa, avvenga a Lazaro. Del resto le nuove sorti sono assolutamente immutabili, e Abramo non può far niente anche per uno della sua razza che non stia lassù vicino a lui: «E oltre a tutto questo, tra noi e voi è stato stabilito un abisso grande, affinché quei che volessero passare di qui verso di voi non possano né di costà si attraversi verso di noi». Anche qui si trova la sorte perfettamente invertita: come prima della morte il ricco non faceva nulla in pro di Lazaro, così adesso Lazaro non fa nulla in pro del ricco; l’abisso morale che separava i due è diventato adesso un abisso cosmologico. Tuttavia il ricco, anche rotolato nella Sheol, ripensa ai suoi parenti e desidera - [ma non ber bontà di animo, giacché è impossibile per un dannato] - che almeno essi sfuggano in futuro alla sorte presente di lui. A tale scopo torna a pregare Abramo: «Ti chiedo perciò, padre, che invii lui (Lazaro) a casa di mio padre - ho infatti cinque fratelli - affinché faccia testimonianza ad essi, affinché non vengano anch’essi in questo luogo del tormento». Ma neppure questa domanda è accolta da Abramo, il quale secco secco risponde: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino quelli!», cioè regolino la loro condotta conforme alle norme di Mosè e dei Profeti consegnate nella Sacra Scrittura, e ciò basterà ad evitare il luogo del tormento. Ma il ricco non è di questa opinione, e perciò insiste: «No, padre Abramo! Ma se alcuno da(lla regione dei) morti vada a loro, cambieranno di mente». La ragione è respinta risolutamente da Abramo, che chiude la disputa sentenziando: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neppure se alcuno sia risorto dai morti saranno persuasi». In conclusione, la Legge ebraica non solo non è abolita, ma è dichiarata più efficace della rivelazione privata fatta da un morto risuscitato. [Lo stesso ragionamento è certissimo oggi, nell’epoca del materialismo più radicale. Difatti il cristiano che vuol salvarsideve osservare il Catechismo e obbedire ai Precetti della Chiesa, non in altra maniera può salvarsi, poiché ha quanto basta per avere, grazie a Dio, la vita eterna. E se si rifiuta di osservare Catechismo e Precetti che vengono dalla Chiesa, dal Papa, insomma dalla legittima Autorità di Dio, peggio ancora vivrà  nell’inganno al seguito di una privata rivelazione].  Inoltre, lo spirito di quella legge invita a servirsi delle ricchezze come di una scala per salire a Dio, ma non già a fermarsi sulla scala; il regno di Dio, poi, respinge senz’altro la scala [della mondanità].

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.