Comunicato numero 79. Sadducei, Farisei, Scribi ed altri gruppi giudaici (Seconda parte)

Stimati Associati e gentili Sostenitori, continuiamo a studiare, con l’Abate Ricciotti («Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941), il capitolo: «Sadducei, Farisei, Scribi ed altri gruppi giudaici» all’epoca di Gesù. Prosegue dalla scorsa settimana (n° 78 di Sursum Corda).

• § 40. Tutti gli altri Giudei, che non appartenevano alla «colleganza» dei Farisei, erano chiamati da costoro il «popolo della terra». Il termine era dispregiativo, ma anche più dispregiativo era il contegno tenuto dai Farisei verso questi loro connazionali. Anche qui le testimonianze, da parte tanto cristiana quanto giudaica, sono concordi. In Giovanni, 7, 49, i Farisei esclamano: «Questa folla, che non conosce la Legge, sono maledetti»; ove la folla designa i non Farisei, cioè il «popolo della terra», il quale non conosce la Legge ed è tutto di maledetti. I documenti giudaici, poi, confermano questa maledizione. È sentenza appunto del grande Hillel che nessun tanghero teme il peccato, e il popolo della terra non è pio: ove tanghero è sinonimo di chi appartenga al popolo della terra. Quindi un vero Fariseo non doveva avere alcun contatto col «popolo della terra», bensì mostrarsi fariseo cioè «separato» nei riguardi di esso. Per questa ragione un rabbino sentenziava: «Partecipare ad un’assemblea del popolo della terra produce la morte» (Pirqe Aboth, III, 10); il celebre Giuda il Santo si rammaricava: «Ahimè! Ho dato del pane a uno del popolo della terra!» (Baba Bathra 8 a) e Rabbi Eleazar prescriveva: «È lecito trafiggere uno del popolo della terra anche nel giorno del Kippur che cadesse di sabbato» (Pesahim 49 b). In molti altri passi è proibito al Fariseo di vendere frutta a uno del «popolo della terra», di dargli ospitalità o riceverne, di contrarre parentela matrimoniale con lui, e simili (Demai, Il, 3; ecc.). È superfluo dire che, agli occhi dei Farisei, poteva essere «tanghero» e «popolo della terra» anche un Giudeo aristocratico e facoltoso, o un membro dell’alto sacerdozio: il criterio per giudicarlo era la pratica e la conoscenza della Legge secondo i princìpi farisei, e l’appartenenza alla eletta casta dei «separati». Solo raramente a siffatto disprezzo di casta si rispondeva da parte degli estranei col disprezzo e con l’ostilità. Il popolino, specialmente nelle città e soprattutto le donne, stavano cordialmente per i Farisei e nutrivano per essi una stima illimitata; ci si arriva a dire che i Farisei tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote sono immediatamente creduti (Antichità giud., XIII, 288). Siffatta base democratica era la vera forza di cotesti aristocratici dottrinali.

• § 41. Resta da esaminare il preciso concetto di Scriba, e le sue relazioni con quello di Fariseo. I Vangeli accomunano spessissimo Scribi e Farisei, e giustamente sotto l’aspetto della realtà contemperanea; ma in teoria non tutti gli Scribi erano Farisei, come in pratica non ogni Fariseo era Scriba perché poteva non averne la scienza necessaria, ossia non essere un hakam (§ 39). Il concetto di Scriba era quello di essere per eccellenza l’uomo della Legge, astraendo dalla sua condizione sacerdotale o laica e dai suoi princìpi sadducei o farisei; ma in pratica, ai tempi di Gesù, solo pochissimi Scribi erano di condizione sacerdotale e di princìpi sadducei, mentre la stragrande maggioranza era costituita da laici di princìpi farisei. Di qui il pratico pareggiamento di Scribi e Farisei presso i Vangeli. Quando nell’esilio di Babilonia il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge (Torah), già allora - prima cioè che esistessero le due correnti di Sadducei e Farisei - vi furono uomini che consacrarono tutta l’operosità e la vita loro all’unico bene superstite, alla Legge, onde conservarlo con ogni cura, trasmetterlo con tutta esattezza, investigarlo ed applicarlo con la più scrupolosa indagine. Un uomo siffatto fu per eccellenza l’uomo del libro (sepher), non soltanto perché ne era il diligentissimo scriba, ma soprattutto perché ne era nel più ampio senso il maestro. Egli fu dunque il legista ed a lui fu riserbato il titolo onorifico di Rab, Rabbi («grande», «mio grande»). Grandissima era l’autorità dello Scriba già verso il 200 av. Cr., come appare anche dal lirico encomio che ne fa il Siracida (Ecclesiastico, capp. 38-39); ma più tardi essa crebbe ancora, fino a diventare un vero trono di gloria contrapposto al trono del sacerdozio. Ai tempi di Gesù, infatti, il sacerdozio aveva bensì conservato il suo ufficio liturgico ed il suo grado gerarchico nella costituzione teocratica del giudaismo, tuttavia esso aveva perduto quasi ogni efficacia sulla formazione spirituale delle masse il vero «padre spirituale» del popolo, il suo catechista, la sua guida morale, non era più il sacerdote ma lo Scriba. Man mano che il sacerdozio si era disinteressato della Legge, il laicato lo aveva sostituito nella direzione spirituale del giudaismo; mano mano che il sacerdozio si era immedesimato con la corrente sadducea, il laicato legista era diventato sempre più fariseo: cosicché a un certo tempo l’azione del sacerdozio rimase circoscritta alla liturgia del Tempio ed ai maneggi della politica, mentre lo Scriba laico s’assise quale maestro nelle scuole della Legge, predicò quale rappresentante di Mosè nelle sinagoghe, s’aggirò quale modello di santità nelle vie e nelle case della venerabonda plebe. Scriba poteva divenire qualunque discendente d’Abramo, ma la via per toccare la mèta era lunga. Spesso si cominciava fin dalla puerizia a percorrerla, istruendosi - come fece San Paolo (Atti, 22, 3) – «ai piedi» di qualche autorevole maestro (che insegnava seduto, mentre i discepoli si accoccolavano ai suoi piedi). Difficilmente un discepolo aveva percorso tutta la sua via ed era in grado a sua volta d’insegnare, prima che fosse in età di quaranta anni e in tutto questo tempo egli, quasi sempre povero, aveva esercitato un mestiere manuale per vivere (§ 167). Ma quando l’amore per la conoscenza della Legge era entrato nel cuore di uno di questi uomini, non si badava a privazioni d’ogni genere, a veglie diuturne, a tirocini laboriosi, a esercitazioni mnemoniche estenuanti, pur di possedere la Legge. Il possessore di questo tesoro era più ricco d’ogni ricchissimo, più glorioso d’un re e d’un sommo sacerdote, come già vedemmo a proposito dei Farisei (§ 35).

• § 42. Della corrente dei Farisei, secondo ogni verosimiglianza, sono derivazioni le correnti degli Zeloti e dei Sicari. Flavio Giuseppe, troppo incline a ravvicinare il mondo giudaico a quello greco-romano, presenta la corrente degli Zeloti come una quarta filosofia (Antichità giud., XVIII, 9), dopo le tre degli Esseni, Farisei e Sadducei; ma in realtà gli Zeloti, oltre a non rappresentare una filosofia, non formavano neppure una quarta corrente, perché erano sostanzialmente Farisei. Lo stesso Flavio Giuseppe afferma poco appresso che gli Zeloti in tutto il resto s’accordano con l’opinione dei Farisei, solo che hanno un ardentissimo amore per la libertà ed ammettono come unico capo e signore Dio; non badano punto a subire le morti più straordinarie e punizioni di parenti e d’amici, pur di non riconoscere come signore alcun uomo (Ivi, 23). È evidente in questo atteggiamento l’adesione al principio nazionale-teocratico, ch’era essenziale nel fariseismo: ma la divergenza avveniva nella pratica, perché i Farisei comuni non applicavano quel principio nel campo politico, mentre gli Zeloti ve l’applicavano con rigore fino alle ultime conseguenze. E perciò si chiamarono «Zeloti», ossia zelanti applicatori della Legge nazionale-religiosa. Il termine era stato impiegato già da Mattatia, padre dei Maccabei, il quale in punto di morte aveva raccomandato ai suoi figli: «E ora, figli, siate gli zelanti della Torah e date le vostre vite per l’alleanza dei nostri padri» (I Macc., 2, 50). Infatti i cinque figli del morente finirono tutti uccisi per la causa nazionale-religiosa; e proprio dalla vittoria di questa causa uscirono gli Asidei, dai quali discesero i Farisei (§ 29). Ora, gli Zeloti ripresero in pieno il programma del padre dei Maccabei: vollero essere Farisei integralisti in ogni campo, anche in quello politico.

• § 43. E in realtà fu un’occasione politica che fece sorgere gli Zeloti. Quando nell’anno 6 dopo Cr., Sulpicio Quirinio iniziò il censimento della Giudea testé annessa all’Impero romano (§ 24), il popolo vide nel censimento la prova tangibile che la nazione eletta dai Dio Jahvè era sottoposta sacrilegamente al dominio di impuri stranieri; tuttavia la gran massa, persuasa anche da insigni sacerdoti, si sottomise e si lasciò censire, ed altrettanto fece la maggior parte dei Farisei. Resistette invece un certo Giuda di Gamala, detto il Galileo, che, unitosi con un autorevole Fariseo di nome Sadduc, indusse i paesani a ribellione insultandoli se... avessero tollerato, dopo Dio, padroni mortali (Guerra giud., II, 118). La rivolta fu domata dai Romani, ed una trentina d’anni appresso il Fariseo Gamaliel la ricordava ancora come un episodio celebre (Atti, 5, 37). Tuttavia, con questa prima sconfitta, gli Zeloti non cedettero. Dispersi ed occulti davanti alle autorità romane, essi mantennero sempre vivo lo spirito d’implacabile avversione politica contro gli stranieri, che poi divampò apertamente nella rivolta finale. Con ciò essi si distinsero sempre più dai Farisei comuni, che di fronte ai Romani si mostravano passivi e cedevoli. Più tardi, anzi, gli Zeloti fecero un ulteriore passo sulla via della ribellione operosa. Quando l’esperienza dimostrò che ogni sollevazione in massa non aveva alcuna probabilità di prevalere contro i Romani, i dissimulati Zeloti ricorsero alle congiure contro individui isolati e ai colpi di mano contro luoghi determinati, per toglier di mezzo i singoli dominatori se non l’intero dominio straniero, rimanendo essi stessi nell’ombra. In tali imprese l’arma più adoperata era il corto pugnale che i Romani chiamavano sica: perciò questi Zeloti si chiamarono «Sicari». Se dunque gli Zeloti furono i Farisei intransigenti anche nel campo politico, i Sicari alla loro volta possono considerarsi come le squadre volanti, le avanguardie d’assalto, mandate avanti dagli Zeloti. Supponendo al centro la massa del giudaismo comune, alla sua destra stavano schierati sempre più in là dapprima i tradizionalisti Farisei, poi gl’intransigenti Zeloti, infine gli aggressivi Sicari. Ma Zeloti e Sicari, che furono i principali responsabili dell’insurrezione degli anni 66-70, ne furono anche le vittime, perché scomparvero quando i Romani debellarono gli ultimi focolai della rivolta e specialmente la fortezza di Masada, la cui tragica fine è narrata con somma precisione archeologica da Flavio Giuseppe (Guerra giud., VII, 253 segg.). Invece i Farisei, loro padri spirituali, superarono la grande prova: il giudaismo superstite, riordinato secondo i princìpi delle scuole rabbiniche, fu genuina opera loro, e tale è rimasto fino ad oggi. Fra i discepoli di Gesù, l’apostolo Simone è chiamato lo Zelota (Luca, 6, 15; Atti, I, 13) o anche il Cananeo (Matteo, 10, 4; Marco, 3, 18). Questo secondo termine non proviene dal nome degli antichi abitatori della Palestina, i Cananei, bensì è la forma aramaica, qan’ana; e significa «zelante» ossia Zelota. I Sicari, nel Nuovo Testamento, sono menzionati solo incidentalmente in Atti, 21, 38 (per cui cfr. Guerra giud., II, 261-263; Antichità giud., XX, 169-172).

• § 44. Sia nel Nuovo sia nell’Antico Testamento non sono mai nominati gli Esseni, di cui parla a lungo Flavio Giuseppe Guerra giud., II, 119-161) oltre a Filone, a Plinio ed altri. Gli Esseni formavano una vera associazione religiosa, ch’esisteva già verso la metà del secolo II av. Cr. in vari luoghi della Palestina, ma col suo centro principale nell’oasi di En-gaddi sulla sponda occidentale del Mar Morto. Erano in tutto circa 4000. Le regole principali di questa associazione, molto simile agli ordini monastici del cristianesimo, erano le seguenti. Per esservi ammessi bisognava fare un noviziato di un anno, alla fine del quale si riceveva un battesimo; seguivano altri due anni di probandato, dopo dei quali avveniva l’affiliazione definitiva mediante solenni giuramenti. Tra gli affiliati e i novizi esisteva gran differenza quanto a dignità e a purità legale, tantoché se un novizio toccava per caso un affiliato, costui contraeva una certa impurità da cui doveva mondarsi. I beni materiali erano posseduti in comunismo perfetto ed amministrati da ufficiali eletti a tale scopo; tutti lavoravano, specialmente nell’agricoltura, ed i proventi andavano nel fondo comune. Erano proibite la mercatura, la fabbricazione d’armi, la schiavitù. Il celibato era lo stato normale: il solo Flavio Giuseppe dà notizia di un particolare gruppo di Esseni che contraevano matrimonio sotto condizioni speciali, ma il fatto non è ben certo, e ad ogni modo non sarà stato che una limitata eccezione alla norma comune: secondo Plinio gli Esseni sono una gens... in qua meno nascitur (in Natur. hist., V, 17). Questa mancanza di procreazione faceva si che accettassero a scopo di proselitismo anche fanciulli, come probabili candidati all’associazione. La giornata era divisa fra il lavoro e la preghiera. Di prima mattina una preghiera comune era rivolta al Sole. I pasti, consumati in comune, avevano un carattere di cerimonia sacra, perché erano presi in luogo speciale, dopo aver praticato particolari abluzioni e indossato abiti sacri, ed erano preceduti e seguiti da particolari preghiere; anche i cibi, semplicissimi, erano preparati da sacerdoti secondo regole speciali. In tutta la giornata si osservava abituale silenzio. Il rispetto per il riposo del sabbato era di un rigore singolare: tanto che per questo rispetto, come pure per un accresciuto riguardo alla purità legale, in detto giorno non si soddisfaceva alle necessità corporali maggiori (§ 70). Per Mosè si aveva somma venerazione e chi ne bestemmiava il nome era punito di morte. Di sabbato si leggeva in comune la Legge di lui, e se ne facevano spiegazioni; ma oltre ai libri di Mosè l’associazione usava altri libri segreti, ch’erano studiati egualmente di sabbato. D’altra parte non tutte le prescrizioni di Mosè erano praticate, perché al Tempio di Gerusalemme gli Esseni inviavano offerte di vario genere, ma non sacrifizi cruenti d’animali. Salvo il giuramento per l’affiliazione, ogni sorta di giuramento era rigorosamente proibita; ci si dice infatti: Ogni loro detto ha più forza d’un giuramento; ma dal giurare si astengono considerandolo peggiore dello spergiuro, giacché dicono che risulta già condannato colui che non è creduto senza (un appello a) Dio (Guerra giud., III, 135). È probabile che nelle consuetudini degli Esseni e nelle loro dottrine, il cui fondo principale proveniva certamente dal patrimonio ebraico, si fossero infiltrati elementi stranieri: tali ad esempio la dottrina loro attribuita della preesistenza delle anime, ignota all’ebraismo, e la pratica del celibato giammai tenuto in onore presso gli Ebrei. Ma la precisa provenienza di questi elementi non ebraici rimane dubbia, nonostante le molte congetture che si sono fatte in proposito. Sembra che gli Esseni esercitassero un’influenza scarsissima sul restante del giudaismo contemporaneo, dal quale erano segregati anche materialmente da tante norme di vita pratica. Essi dovevano apparire come un hortus conclusus, che si ammirava volentieri ma rimanendone al di fuori; tuttavia, oltre a coloro che entravano stabilmente nell’associazione, v’erano taluni che ne seguivano solo per qualche tempo il tenore di vita mossi da un vago desiderio ascetico, come narra d’aver fatto nella prima giovinezza Flavio Giuseppe (Vita, 10-12). Di questioni politiche gli Esseni ordinariamente non si occupavano, mostrandosi ossequenti verso le autorità costituite. Tuttavia nella grande rivolta contro Roma, alcuni di essi si lasciarono vincere dall’entusiasmo e presero le armi: un Giovanni Esseno è ricordato con funzioni di comando tra i Giudei insorti (Guerra giud., II, 567; III, 11,19). Dai vincitori Romani essi ebbero a soffrire gravissimi tormenti (Ivi, II, 152-153), ma non per questo violarono i giuramenti della loro associazione. Dopo questo tempo scompaiono del tutto dalla storia.

• § 45. Nei Vangeli sono nominati anche gli «Erodiani» (Marco, 3, 6; 12, 13; Matteo, 22, 16). Questi tuttavia non costituivano un vero e proprio partito politico, e tanto meno un’associazione o una corrente religiosa; piuttosto dovevano essere Giudei che apertamente sostenevano la dinastia degli Erodi in genere e particolarmente il suo più autorevole rappresentante d’allora, ch’era il tetrarca Erode Antipa (§ 15 segg.), seppure non erano proprio gente di sua corte. Numerosi non potevano essere, e neppur godere di gran credito sul popolo. (Abbiamo fatto un adattamento di alcuni caratteri, ndR).

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti, 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.