Comunicato numero 129. La penitenza e la peccatrice innominata

Stimati Associati e gentili Sostenitori, pensiamo alla Benignità di Dio nel modo di rimettere i peccati. Insegna il Catechismo del santo Concilio di Trento: «Il modo stesso che Dio, Padre clementissimo, ha stabilito per cancellare i peccati del mondo, deve efficacemente eccitare l’animo dei fedeli a contemplare la grandezza di questo beneficio. Egli infatti volle che i nostri peccati venissero espiati col sangue del Suo Figlio unigenito, affinché questi pagasse la pena da noi meritata per i nostri peccati ed Egli, giusto, fosse condannato per i peccatori; innocente, subisse una acerbissima morte per i colpevoli. Quante volte perciò ricorderemo che noi non fummo già riscattati con vile moneta, ma col prezioso sangue di Cristo, Agnello incontaminato e senza macchia (1 Pt., 1, 18-19), ci sarà facile dedurre che nulla di più salutare ci poteva essere concesso da Dio, di questa facoltà di rimettere i peccati; dono che mostra tutta la misteriosa provvidenza di Dio e il Suo immenso amore per noi. E altresì necessario che ciascuno ritragga da questa meditazione il maggior frutto possibile, poiché chi offende Dio col peccato mortale, perde i meriti che gli venivano dalla passione e morte di Cristo; cosi gli è negato l’accesso a quel Paradiso, che il Redentore gli aveva aperto a prezzo del Suo preziosissimo sangue. Perciò ogni volta che pensiamo a questo, non possiamo non pensare seriamente alla profonda miseria nostra. Ma se consideriamo quale ammirabile potere fu da Dio concesso alla Sua Chiesa; e se, fermi in questo articolo di fede, crediamo che a ognuno è dato, con l’aiuto divino, di ritornare al primitivo stato di grazia e dignità, allora col cuore pieno di esultanza, ci sentiamo spinti a rivolgere a Dio le più vive grazie. Se quando siamo gravemente malati, ci sembrano buoni e gradevoli perfino i farmaci che la scienza medica ci somministra, quanto più soavi dovranno essere per noi quei rimedi, che la sapienza di Dio istituì a cura delle anime e quindi a restaurazione della vita? Soprattutto perché portano con sé non già una dubbia speranza di salvezza, come le medicine che si prendono per il corpo, ma una sicura salvezza a coloro che bramano di essere sanati».

• Ed ancora: «I fedeli, dopo aver conosciuto la preziosità di così insigne beneficio, saranno esortati a sforzarsi di usarne religiosamente. Poiché è impossibile evitare che chi rifiuta uno strumento utile, anzi necessario, non ne risulti suo spregiatore. Tanto più che il Signore affido alla Chiesa questa potestà di rimettere i peccati, appunto perché tutti facessero ricorso al salutifero rimedio. Come infatti senza il Battesimo nessuno può riacquistare l’innocenza, così chiunque voglia ricuperare la grazia del Battesimo, perduta con colpe mortali, dovrà ricorrere a un altro genere di espiazione, e precisamente al sacramento della Penitenza. Però si devono ammonire i fedeli perché, essendo stata prospettata una possibilità di perdono così ampia da non essere circoscritta da alcun limite di tempo, non si sentano più proclivi al peccato o più pigri alla resipiscenza. Nel primo caso, evidentemente irrispettosi e sprezzanti verso tale divina potestà, sarebbero indegni della misericordia di Dio; nel secondo, dovrebbero vivamente paventare che, colti dalla morte, non si trovino ad avere inutilmente creduto in un perdono dei peccati, che il continuo procrastinare hafatto loro perdere per sempre».

• Cosa fare nella sciagurata ipotesi di aver commesso peccato mortale? Bisogna confessarsi (ovviamente da un vero Prete) il prima possibile.  Ma facciamo attenzione, poiché sulla Penitenza è necessario sapere:

a) «La materia di questo Sacramento differisce dagli altri sopratutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di naturale, o di artificiale; della Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente: cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento»;

b) «La sua (della Penitenza) efficacia nel rimettere i peccati le è in tal modo propria che senza di essa è impossibile non solo ottenere, ma neppure sperarne il perdono, essendo scritto: Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo (Lc., 13, 3)»;

c) «Questo Sacramento, oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri Sacramenti, contiene, come abbiamo già detto, tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. Dice in proposito San Giovanni Crisostomo: La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore è la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione. Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto. La ragione della necessità di queste tre parti è che noi offendiamo Dio in tre maniere: in pensieri, parole ed opere. Perciò è giusto e ragionevole che noi, sottomettendoci alle chiavi della Chiesa, ci sforziamo di placare l’ira di Dio e di ottenere da Lui il perdono dei peccati con quegli stessi mezzi adoperati per offendere il Suo santissimo Nome. Vi è un’altra ragione. La Penitenza è una specie di compenso dei peccati, che procede dalla volontà del peccatore; ed è stabilita dalla volontà di Dio, contro cui si è peccato. Bisogna quindi da un lato che il penitente voglia dare questo compenso, e questo costituisce la contrizione; dall’altro, che egli si sottometta al giudizio del Sacerdote il quale tiene il luogo di Dio, affinché si possa fissare una pena proporzionata alle colpe; ed ecco la necessità della confessione e della soddisfazione»;

d) «La contrizione è un dolore dell’animo e una detestazione del peccato commesso con il proposito di non più peccare per l’avvenire. Parlando più oltre dellacontrizione, bisogna aggiungere con i Padri: Questo atto prepara alla remissione dei peccati, purché sia accompagnato dalla fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà di fare quanto è necessario per ben ricevere il Sacramento della Penitenza»;

e) «Secondo la dottrina della Chiesa Cattolica, tutti devono credere e affermare senza riserva che se uno è sinceramente pentito dei suoi peccati e risoluto di non più commetterli per l’avvenire, quand’anche non sentisse un dolore sufficiente a ottenergli il perdono, otterrà il perdono e la remissione di tutte le colpe in virtù delle chiavi (del regno dei Cieli che Cristo Nostro Signore ha dato alla Chiesa), purché li confessi nel debito modo al Sacerdote. In questo senso tutto i santi Padri hanno proclamato con ragione che il cielo ci è aperto dalle chiavi della Chiesa; e il Concilio di Firenze ha messo questa verità fuori dubbio, dichiarando che l’effetto della Penitenza è la remissione dei peccati... Inoltre l’esperienza prova che nulla giova tanto ad emendare i costumi di persone che menano una vita corrotta, quanto la manifestazione dei segreti pensieri del loro animo, delle loro parole ed azioni, ad un amico prudente e fedele, che li possaaiutare coi suoi servigi e consigli (il vero Confessore)»;

f) «Nessuno osi pensare che la confessione sia stata istituita dal Signore in modo che la pratica non ne sia necessaria. I fedeli sono tenuti a credere che chi ha la coscienza gravata da peccato mortale, deve essere richiamato alla vita spirituale mediante il Sacramento della Confessione (o Penitenza). Vediamo che il Signore espresse questa necessità con una magnifica immagine, quando definì il potere di amministrare questo Sacramento: chiave del regno dei cieli (Mt., 16, 19). Chi può penetrare in un luogo chiuso senza ricorrere a chi ne ha le chiavi? Così nessuno può entrare in Cielo, se i Sacerdoti, alla fedeltà dei quali il Signore consegno le chiavi, non ne dischiudano le porte. Altrimenti sarebbe assolutamente inutile l’uso delle chiavi nella Chiesa»;

g) «La soddisfazione è l’integrale pagamento di quello che è dovuto: poiché è soddisfacente ciò a cui nulla manca. Sicché trattando della riconciliazione per riottenere la grazia, soddisfare significa offrire quel che a un animo irato apparisce sufficiente a vendicare l’ingiuria. In altre parole, la soddisfazione è il compenso offerto per l’ingiuria arrecata ad altri. Nel caso nostro i teologi usarono il vocabolo soddisfazione, per indicare quel genere di compenso che l’uomo offre a Dio per i peccati commessi....  Il santo Concilio Tridentino spiega luminosamente la ragione, per cui non tutta la pena viene condonata nel Sacramento della Penitenza, come invece accade nel Battesimo, con queste parole: “L’essenza della giustizia divina esige che in modo diverso siano ricevuti in grazia coloro che per ignoranza peccarono prima del Battesimo, e coloro che, una volta affrancati dalla schiavitù del peccato e del demonio, insigniti del dono dello Spirito santo, non esitano a violare consapevolmente il tempio di Dio e a contristare lo Spirito santo. In questo caso conviene alla divina clemenza che non siano condonati i peccati senza alcuna soddisfazione, perché alla prima occasione, reputando poca cosa la colpa, disprezzando lo Spirito santo, non cadiamo in misfatti più gravi, accumulando l’ira divina per il giorno della vendetta. Senza dubbio le pene soddisfattorie trattengono efficamente dal peccato e ci stringono con un freno potente, rendendoci piùcauti e vigili per l’avvenire”»;

h) «La soddisfazione può essere di due tipi: Tipo uno) La più alta ed eccellente soddisfazione è quella con la quale, a compenso delle nostre colpe, è stato dato a Dio tutto ciò che da parte nostra gli si doveva, pur supponendo che Dio abbia voluto trattarci a rigore di diritto. Tale soddisfazione, che ci rese Dio placato e propizio, fu offerta unicamente da Gesù Cristo Signor nostro; che sulla croce scontò l’intero debito dei nostri peccati. Nessuna creatura avrebbe potuto sgravarci di così pesante onere; per questo, Egli, secondo la parola di San Giovanni, si diede pegno di propiziazione per le colpe nostre e per quelle di tutto il mondo (1 Jn., 2, 2); Tipo due) Un secondo genere di soddisfazione è detto canonico; e si compie in un determinato periodo di tempo. È antichissima consuetudine ecclesiastica che, nel momento dell’assoluzione, sia assegnata ai penitenti una penitenza determinata, il cui soddisfacimento è appunto chiamato soddisfazione. Col medesimo nome è pure indicato ogni genere di penalità, che spontaneamente e deliberatamente affrontiamo a sconto dei nostri peccati, anche senza l’imposizione del Sacerdote».

• Ciò premesso, dunque avendo capito che cos’è la Penitenza e come si deve compiere, torniamo ad usare lo splendido volume «Vita di Gesù Cristo» secondo gli edotti studi dell’Abate Giuseppe Ricciotti, che oggi ci parla della «Peccatrice innominata». § 341. A questo punto il solo San Luca, lo scriba mansuetudinis Christi secondo la definizione dell’Alighieri (§ 138), narra un episodio che dimostra quella mansuetudine. I Farisei continuano a sorvegliare Gesù; ma non è necessario che la sorveglianza abbia sempre un aspetto aggressivo, anzi talvolta è maniera più astuta darle un sembiante amichevole. Per questa ragione un Fariseo, dal nome comunissimo di Simone, invita Gesù a pranzo: il luogo non è nominato, ma doveva essere una borgata della Galilea. Il pranzo, secondo l’uso del tempo, è tenuto in una stanza con nel mezzo una tavola a semicerchio: nell’interno del semicerchio s’aggirano i servi con le vivande, e i convitati stanno in piccoli divani che sono disposti radialmente all’esterno del semicerchio; quindi ogni convitato è sdraiato sul suo divano in modo da appoggiarsi su un gomito e da avere il busto vicino alla tavola, mentre i suoi piedi rimangono un po’ fuori del divano e lontani dalla tavola. Il pranzo offerto da Simone ha vari convitati, e probabilmente non è stato imbandito apposta per Gesù: tuttavia Simone ha colto l’occasione per invitare anche l’indomito predicatore e studiarselo comodamente da vicino nella sincerità che suscitano i fumi d’un convito; ad ogni modo a Gesù, convocato più a un esame che a un convito, sono negati i complimenti riserbati ordinariamente a un invitato insigne, quali la lavanda dei piedi appena entrato, l’abbraccio e il bacio da parte del padrone di casa, lo spruzzo di profumi sulla testa prima di mettersi a tavola. Gesù nota queste negate attenzioni, ma non dice nulla e si mette a tavola con gli altri. Ma ecco che, nel colmo del convito, entra nella stanza una donna: confusa tra i familiari che servono, ella non parla a nessuno, va di filata al divano di Gesù, s’inginocchia all’esterno nella parte più lontana dalla tavola, e lì scoppia in pianto. Le sue lacrime sono così abbondanti che rigano i piedi di Gesù: ella però non vuole che quei piedi rimangano rigati dai segni del dolore, ma trovandosi nell’imprevisto e non avendo con sé un panno per asciugarli, per maggior deferenza scioglie i suoi capelli e così asciuga quei piedi; poi li bacia e ribacia, poi ancora li spruzza col profumo d’un vasetto d’alabastro che ha portato con sé per ungere la testa della persona venerata (§ 501). Tutto avviene senza una parola da parte della donna o di Gesù. Solo un sottile sorriso illumina la faccia di Simone: l’esaminatore ha già giudicato l’esaminando e l’ha riprovato. Simone, infatti, a quella vista ragiona dentro di sé: Costui, se fosse profeta, saprebbe chi e che razza di donna è colei che lo tocca: è infatti una peccatrice! (Luca, 7, 39). Per i Farisei peccatrice aveva un significato vario: poteva designare tanto una donna di perversi costumi, quanto una donna che non osservava le prescrizioni farisaiche; nel Talmud è equiparata a una peccatrice anche la moglie che dia a mangiare a suo marito cibi di cui non sia stata pagata la decima. Seguendo una via di mezzo, si potrà supporre che la donna introdottasi nel convito di Simone fosse una persona di reputazione dubbia, giacché, se fosse stata una vera meretrice, ben difficilmente i familiari del Fariseo l’avrebbero lasciata penetrare dentro la casa: lo scandalo, davanti ai convitati, sarebbe stato troppo grave. L’ignota donna certamente già conosceva Gesù almeno di vista: l’aveva udito parlare in pubblico, aveva ascoltato dalla sua bocca quelle parole che richiamavano inesorabilmente tutti al “cambiamento di mente” (§ 335) ma nello stesso tempo suonavano così benigne e confortevoli ai più traviati ed abietti; ella ne era stata dapprima sconvolta ed atterrata nell’abiettezza della sua vita, poi sentendosi risollevata e sorretta dalla misericordiosa speranza diffusa nel suo cuore in virtù di quelle stesse parole, aveva fermamente creduto in una vita nuova, e al momento d’iniziarla si era presentata al suo rigeneratore per esprimergli i propri sentimenti in maniera squisitamente femminea.

• § 342. Il sottile sorriso beffardo di Simone forse fu notato da Gesù, il suo occulto pensiero di riprovazione certamente fu letto dal riprovato, che perciò gli rivolse pacatamente la parola: Simone, ho qualche cosa da dirti! - E l’altro, condiscendente: Maestro, dì pure! - Gesù allora: Ci fu una volta un creditore che doveva riscuotere da un debitore la somma di 500 denari e da un altro una somma dieci volte minore, cioè soltanto 50 denari; ma poiché nessuno dei due debitori era in grado di pagare e il creditore era un uomo di buon cuore, rimise ad ambedue i loro debiti rispettivi. Di questi debitori condonati chi credi tu, Simone, che sarà più grato e più affezionato al generoso creditore? - Simone rispose: Mi immagino che sarà colui al quale è stato condonato di più. - La risposta era tanto elementare quanto giusta. Gesù allora replicò: Vedi questa donna? Entrai in casa tua, acqua ai miei piedi non desti: costei invece mi bagnò con le lacrime i piedi ed asciugò con i suoi capelli. Bacio non mi desti: costei invece, da quando entrai, non cessava di baciarmi i piedi. Con olio la mia testa non ungesti: costei invece con unguento mi unse i piedi. In grazia di che, ti dico, sono rimessi i peccati di lei i quali (sono) molti perché amò molto; a chi invece poco si rimette, poco ama (Luca, 7, 44-47). Non sono mancati i mestieranti della logica che hanno scoperto una conclusione illogica nel ragionamento di Gesù: la conclusione legittima, in armonia con la parabola dei due debitori, sarebbe stata che la peccatrice doveva amare di più perché di più le era stato condonato. Senonché l’obiezione suppone che Gesù avesse voglia d’insegnare la maniera di fare i compassati sillogismi «in forma», sostituendosi nel mestiere ad Aristotele: ma Gesù aveva altro da fare, e ragionava seguendo la logica pratica di tutti gli uomini, che spessissimo saltano alla conclusione tralasciando talune premesse facilmente comprensibili. Nel caso nostro, la peccatrice conseguì la molta remissione perché amò molto, ma, se amò molto, la ragione a sua volta è che ella ricercò e quasi prevenne la molta remissione: l’amore fu unico, e dapprima spinse la peccatrice a cercar la remissione e ne fu causa, poi la confermò nella remissione e ne fu effetto, come fu effetto della remissione nel debitore della parabola. Le due conseguenze si richiamano a vicenda, e Gesù senza limitarsi alla conseguenza che sarebbe scaturita a rigore dalla parabola, insiste piuttosto sull’altra, giacché parlava a Simone il quale da buon Fariseo aveva poco di esteriore da farsi perdonare ma aveva anche poco amore interiore. Ora, per Gesù, ostacolo ad entrare nel regno di Dio erano certamente i peccati, ma questi potevano esser sempre perdonati: ostacolo insuperabile era invece la mancanza di spinta ad entrare, la mancanza d’amore. Un Fariseo, posto anche sulla soglia del regno, difficilmente vi sarebbe entrato perché era soddisfatto di se stesso e gli mancava la spinta a fare i due o tre passi per entrare; una meretrice invece, quando si fosse accorta di ciò che era, avrebbe avuto ribrezzo di se stessa e avrebbe corso le mille miglia per entrare nel regno, sospinta nella sua corsa dall’amore. Amore pondus e amore praemium, come rifletterà più tardi l’esperto Agostino. Del resto Gesù, recandosi in casa di Simone, aveva veramente donato molto, pur essendone contraccambiato male dal Fariseo; la donna invece aveva ricercato ella stessa Gesù offrendogli ogni prova di devozione, e con ciò aveva donato molto, pur non essendo stata prevenuta apparentemente da Gesù. Di qui la sua ampia retribuzione; la quale, inoltre, servirà a confermarla sempre più nel suo amore. Terminato il ragionamento a Simone, Gesù si rivolse alla donna e le disse: Ti sono rimessi i peccati. Come rimanesse Simone non sappiamo; ci è riferito soltanto che gli altri convitati, della tempra di Simone, cominciarono a dire dentro di sé: Chi e costui che rimette pure i peccati? La stessa riflessione era stata fatta dai Farisei presenti alla scena del paralitico calato dal soffitto (§ 305), e allora Gesù aveva chiuso loro la bocca con un miracolo; questa volta il miracolo non fu compiuto, perché Gesù non aveva alcun motivo di compierne uno ogni qual volta delle oche messesi a far da guardiane ad un presunto campidoglio d’ortodossia avessero cominciato a gracchiare. Preferì invece confermare la donna nella sua nuova via, e le disse: La fede tua ti ha salvata: va’ in pace! Pace e amore erano la stessa cosa.  [Libro utilizzato: «Vita di Gesù Cristo» - Imprimatur 1940, 7a Edizione, Rizzoli & C. Editori, Milano e Roma, 1941, dell’Abate Giuseppe Ricciotti - riposi in pace!].

Oggigiorno molti cattolici nominali - ed è inutile perdere tempo a menzionare gli sventurati delle false religioni - credono che amare significhi fare sesso. E dietro il paravento della parola amore pretendono di giustificare e di imporre ogni mostruosa perversità e follia. In verità amare è fare la volontà della persona amata. Gesù definisce chi veramente Lo ama: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (Gv., 14, 21).

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.