Comunicato numero 141. Miracoli ed esorcismo di Gesù nella FeniciaStimati Associati e gentili Sostenitori, ci sembra opportuno segnalare nuovamente la pubblicazione sul nostro sito dell’inserto gratuito: «La questione del cosiddetto “Papa eretico”» (Cliccare qui). Si tratta di una ricerca suddivisa in 77 capitoli, più la conclusione, in cui viene affrontata la questione del «Papa eretico». Quali sono gli autori cattolici che hanno studiato questa ipotesi? Come hanno pensato di risolvere il problema? La ricerca che Vi segnaliamo intende difendere il dogma cattolico dalle infondate rivendicazioni e dalle abituali falsificazioni storiche degli acattolici e di un certo mondo che si autoproclama “Tradizionalista”. Il zelante Lettore potrà, altresì, approfondire sulle fonti puntualmente menzionate. Nell’editoriale di apertura del numero 138 di Sursum Corda ci siamo occupati della prima moltiplicazione dei pani operata da Nostro Signore Gesù Cristo; mentre oggi l’Abate Ricciotti ci parla della seconda moltiplicazione dei pani e del ministero di Gesù nella Fenicia e nella Decapoli. Ricordiamo che si tratta di episodi storici, realmente accaduti e sotto gli occhi di innumerevoli testimoni (migliaia), non semplicemente di allegorie o di metafore, come vogliono i moderni. Ci è noto, inoltre, che questi racconti storici che riguardano la vita di Nostro Signore giungono a noi dalla notte dei tempi e, sin dall’epoca dei fatti, mai nessuna voce si è levata, nemmeno fra i testimoni oculari, per contestarne l’autenticità e la veridicità. Se qualcosa di falso vi fosse stato in queste narrazioni, dapprima orali e poi tramandate per iscritto, già i testimoni oculari, allora viventi, avrebbero certamente mosso obiezioni ed aspre critiche. Ciò non è mai accaduto e, dunque, la sola evidenza ci dimostra che le obiezioni dei cosiddetti “razionalisti” tutte sono fuorché rivendicazioni razionali. Al contrario, impariamo dalla storia che l’odio dei Farisei nei confronti di Gesù Cristo cresceva di giorno in giorno e di miracolo in miracolo, fino all’epilogo del Golgota che tutto il mondo ragionevole conosce e riconosce. Veniamo finalmente al tema di oggi.

• § 389. La relazione degli Evangelisti diviene nuovamente saltuaria e aneddotica, e improvvisamente ci presenta Gesù trasferitosi nelle regioni di Tiro e Sidone, ossia nella Fenicia. È la prima volta che Gesù esce fuori dalla Palestina dacché ha cominciato la vita pubblica e forse dacché è nato (salvo la fuga in Egitto durante la sua infanzia). Perché quella uscita? Certamente non fu per portare in terra di pagani la «buona novella», perché ciò non entrava nella sua missione personale e immediata come dichiarerà ben presto egli stesso (Matteo, 15, 24); neppure per sottrarsi a minacce di Antipa, perché di ritorno da Gerusalemme era venuto appunto nel territorio di lui: probabilmente fu per sottrarsi alle persecuzioni dei Farisei venuti a pedinarlo anche da Gerusalemme (§ 387), e, nello stesso tempo, per rifugiarsi in un luogo ove potesse rimanere sconosciuto e tranquillo (cfr. Marco, 7, 24) e provvedere ai suoi discepoli, che avevano tanto bisogno ancora di formazione spirituale. Ma anche in Fenicia, come già era avvenuto a Bethsaida (§ 327), il progetto di tranquillità e raccoglimento svanì. Anche quelle regioni pagane, confinanti con la Palestina, avevano inteso parlare di Gesù come di gran taumaturgo: andavano in giro per il mondo pagano d’allora tanti sedicenti operatori di miracoli, che là non si ebbe alcuna difficoltà ad annoverare fra essi anche il profeta della Galilea; se si attribuivano portenti a Esculapio e ad altri Dei, non c’era ragione di non attribuirli anche al Dio dei Giudei operante per mezzo d’un suo profeta: all’atto pratico si sarebbe giudicata la valentia (la bravura) di ciascuno. Questi, più o meno, dovevano essere i sentimenti d’una donna di Tiro che si presentò a Gesù. Era pagana, e mentre San Marco, che scrive per i Romani, la chiama «siro-fenicia» perché la Fenicia faceva parte della provincia romana di Siria, San Matteo, che scrive per i Giudei, la chiama «cananea» alludendo all’avanzo dell’antica popolazione pagana che abitava nella Siria-Palestina prima degli Ebrei. La donna era spinta a Gesù dal suo cuore di madre: una sua figlioletta - così la chiama San Marco - era malamente vessata dal demonio, e la madre aveva messo la sua speranza in Gesù. Espone ella la sua domanda; Gesù non le risponde parola. L’infelice madre insiste, e segue per la strada il gruppo di Gesù e dei discepoli implorando ad alta voce: «Abbi pietà di me, Signore, figlio di David!». Era la maniera insistente e rumorosa che usavano in Oriente i mendicanti (§ 351); la donna, che non doveva ritrovarsi in povertà, era spinta ad imitare i mendicanti dal suo cuore di madre. Gesù continua a non udirla; ma dopo un poco i discepoli, seccati di quella pubblicità, dicono a Gesù di allontanarla, invitandolo con ciò implicitamente ad accordare la grazia. Gesù risponde asciuttamente di essere stato inviato soltanto alle pecorelle sperdute della casa d’Israele: i pagani, qual era la donna, sarebbero stati oggetto della missione personale di altri, non di Gesù. La donna interviene direttamente, e rinnova la supplica. Gesù allora le risponde con durezza: «Lascia prima che si satollino i figli. Non sta bene infatti prendere il pane dei figli e gettar(lo) ai cagnolini!». I privilegiati figli erano i Giudei, e i cagnolini erano i pagani. La durezza della risposta fu quasi amarezza di medicina che provochi la reazione, e con ciò la guarigione. La donna reagì rispondendo ancora da madre implorante: «Anzi (sta bene), Signore! Anche i cagnolini sotto la tavola mangiano dalle briciole dei ragazzi!». Era una reazione di fede. Per Gesù fede significava salvezza (§§ 349-351); perciò egli rispose all’implorante: «O donna, grande è la tua fede!» (Matteo, 15, 28). «Per questa parola, va’, è uscito dalla tua figlia il demonio» (Marco, 7, 29). La madre senz’altro credette, e tornata in casa trovò la bambina adagiata sul letto e libera dall’ossessione.

• § 390. Da Tiro Gesù s’inoltrò più a settentrione, fino a Sidone; di là piegò verso oriente, e con imprecisato giro attraverso la Decapoli (§ 4) si riportò nei pressi del lago di Tiberiade (Marco, 7, 31). Di questa peregrinazione randagia, che probabilmente fece trovare a Gesù quell’isolamento con i discepoli che non aveva trovato a Tiro, ci è trasmesso un solo episodio avvenuto nella Decapoli e narrato dal solo Marco (7, 31-37). Fu presentato a Gesù un sordomuto con vive raccomandazioni che gli imponesse le mani. Gesù lo prende in disparte dalla folla, gli mette le dita nelle orecchie, tocca con un po’ della propria saliva la lingua di lui, quindi guarda su in cielo sospirando; infine gli dice: «Ethpĕtah», cioè «Sii aperto»! L’Evangelista trascrive in greco la precisa parola aramaica, ripetuta fedelmente da Pietro nella sua catechesi, pur facendola seguire dalla traduzione greca (§ 133). Il sordomuto restò guarito all’istante. Gesù poi ordinò che non si parlasse dell’accaduto; ma anche questa volta il suo ordine fu poco o punto eseguito. Perché, invece di operare una guarigione immediata come in altri casi, Gesù premise quei vari atti preliminari? Il vecchio Paulus diceva che Gesù applicava qualche medicina naturale (§ 198); soltanto che l’acuto esegeta ha dimenticato di segnalare, a beneficio dell’umanità intera, quale fosse quella medicina. Parlando invece seriamente, si potrà congetturare che la circostanza di trovarsi Gesù nella regione pagana della Decapoli rendesse opportuno quella specie di simbolismo preparatorio, per ragioni che oggi a noi sfuggono; nello stesso tempo è ben probabile che, non potendo il sordomuto udire le parole di Gesù e volendo costui eccitarlo a quella fede che sempre richiedeva in chi domandava un miracolo, si servisse di quegli atti materiali appunto per eccitarlo alla fede viva.

• § 391. A questo punto i Sinottici, salvo Luca, narrano una seconda moltiplicazione di pani, somigliantissima alla prima ed avvenuta egualmente sulla riva orientale del lago di Tiberiade (§ 372). Accorrono attorno a Gesù grandi folle, che rimangono con lui tre giorni: in questo tempo le cibarie di cui si erano provviste sono consumate. Gesù ha compassione di quella gente, e non vuole rinviarla digiuna per timore che venga meno lungo la strada. I discepoli fanno osservare che lì, in luogo deserto, non c’è modo di trovar pane. Gesù chiede quanti pani disponibili ci siano; gli si risponde: «Sette, e pochi pesciolini» (Matteo, 15, 34). Come la prima, volta Gesù prende quel cibo disponibile, lo spezza e lo fa distribuire; tutti mangiano e si satollano, e si raccolgono sette sporte di avanzi. Coloro che avevano mangiato erano «quattromila uomini senza (contare) donne e bambini» (ivi, 38). Ambedue i Sinottici che raccontano, dopo la prima, anche questa seconda moltiplicazione dei pani, la distinguono espressamente dalla prima (Matteo, 16, 9-10; Marco, 8, 19-20). Ciò è più che sufficiente a dimostrare che la primitiva catechesi degli Apostoli, testimoni degli avvenimenti, parlava di due fatti ben distinti; non è però sufficiente a convincere di questa distinzione gli studiosi radicali moderni, che invece pensano allo sdoppiamento di un unico fatto. Ma sta in contrario che i due fatti, se sono somigliantissimi, mostrano anche divergenze sia quanto al tempo e sia quanto ai numeri; le loro somiglianze, invece, sono facilmente giustificate dalla corrispondenza delle circostanze. E se Gesù volle non una, ma due volte, provvedere miracolosamente ai bisogni materiali delle folle ricercanti il regno di Dio, fu per confermare sempre più l’ammonizione del Discorso della montagna: «Cercate prima il regno e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (§ 331). Trattandosi dell’urgentissima preoccupazione umana, quella del pane materiale, due esempi tipici, invece di uno solo, erano opportunissimi. Dopo il miracolo Gesù risalì in barca ed approdò, certamente sulla sponda occidentale, ad un luogo che San Matteo (15, 39) chiama Magadan, e invece San Marco (8, 10) Dalmanutha. I nomi sono del tutto sconosciuti, e nonostante varie congetture fatte non si sa a quali luoghi assegnarli. [Dalla nota 1 alla pagina 465: Non è impossibile, sebbene non dimostrato, che Magadan sia una scorrezione grafica di Magdala (§ 303), e che Dalmanutha provenga da una glossa aramaica (...)  la quale sarebbe caduta nel testo soppiantandovi il nome geografico (Magdala?)].

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.