Comunicato numero 140. Il paralitico di BezethaStimati Associati e gentili Sostenitori, si segnala sul nostro sito la pubblicazione dell’inserto al numero 140 di Sursum Corda: «La questione del cosiddetto “Papa eretico”» (Cliccare qui per la lettura). Durante la settimana appena conclusa siamo riusciti, grazie a Dio, a fare altre due donazioni: - una di abbigliamento ai cristiani poveri della Caritas; - una di sanitari e arredo bagno ad una famiglia povera del capoluogo. Con l’Abate Ricciotti vediamo, adesso, la vicenda del paralitico di Bezetha.

• § 384. I fatti precedenti erano avvenuti in Galilea e nell’imminenza della Pasqua: è anche possibilissimo che lungo il loro svolgimento la Pasqua fosse già trascorsa. San Giovanni narra questi avvenimenti al capitolo 6, ma nel precedente capitolo 5 egli ha narrato fatti che si svolgono a Gerusalemme; già accennammo alcune ragioni che raccomandano di considerare i fatti del capitolo 5 come posteriori cronologicamente a quelli del capitolo 6 (§ 177), per cui si tolgono alcune difficoltà testuali senza che s’introducano nuovi inconvenienti. Riprendendo pertanto il capitolo 5 lasciato in sospeso, troviamo che Gesù si è recato a Gerusalemme in occasione di una imprecisata festa dei Giudei; la quale poté esser la Pasqua (§ 177), ma più probabilmente era la Pentecoste dello stesso anno 29; in questo caso si era sul declinare del maggio. A settentrione di Gerusalemme, immediatamente fuori delle mura, stava sorgendo un quartiere nuovo, il quale - come avviene spesso in casi simili - si designava usualmente con un doppio nome, quello generico di Città Nuova o quello specifico di Bezetha (cfr. Flavio Giuseppe, Guerra giud., V, 151; II, 530). In questo quartiere, e precisamente vicino alla vecchia Porta della città chiamata “Probatica” ossia delle pecore, esisteva uno stagno o piscina chiamata anch’essa Bezetha. Vi si raccoglievano le acque di una sotterranea fonte che, come quella di Gihon (Siloe) situata nello stesso versante della città, era intermittente, scaturendo di tempo in tempo; a quelle acque si attribuivano particolari virtù curative, specialmente se un malato riusciva a tuffarvisi appena cominciavano a gorgogliare per il nuovo afflusso. Perciò erano stati costruiti a quadrilatero, torno torno allo stagno, quattro portici, con un quinto trasversale in mezzo, che le ricerche moderne hanno chiaramente riscontrato; in quei portici giaceva una moltitudine di infermi, ciechi, zoppi, rattrappiti, aspettando il movimento dell’acqua.

• § 385. Un giorno Gesù, aggirandosi fra quell’ammasso di miserie, si fermò davanti ad un uomo disteso su un giaciglio; era stato colpito da paralisi 38 anni prima, e si faceva trasportare là sperando la guarigione. Improvvisamente Gesù gli domandò: «Vuoi guarire?». - Naturalmente l’infelice pensò all’acqua; sperava egli in quell’acqua, sì, ma purtroppo non faceva mai in tempo ad entrarvi per primo perché, immobilizzato com’era e non avendo nessuno che lo spingesse dentro non appena cominciava il gorgoglimento, era sempre preceduto da altri. A questo rimpianto del paralitico Gesù non rispose, ma ad un tratto gli ordinò: «Alzati, prendi su il tuo giaciglio e cammina!». E subito l’uomo diventò sano; e prese su il suo giaciglio e camminava (Giov., 5, 8-9). Senonché quel giorno era sabbato. Ecco quindi che zelanti Giudei, al vedere quello scandalo, vanno incontro al risanato, e gli fanno stizzosamente osservare ch’egli non può trasportare di sabbato un giaciglio; pesava ben più quel giaciglio che un fico secco, eppure per i sommi maestri era norma sacrosanta che di sabbato non si poteva trasportare neanche un fico secco (§ 70). La risposta del ripreso fu spontanea: «Quello che mi ha guarito mi ha comandato di prendere il giaciglio e di camminare!». - Gli altri replicarono: «E chi è costui?». Il guarito non lo sapeva, perché non conosceva Gesù, e in quel momento Gesù si era occultato per evitare la folla accorsa al miracolo. Tuttavia più tardi Gesù incontrò nel Tempio il guarito, e gli ri-volse alcune parole d’esortazione. Allora il guarito, temendo forse di apparire un complice agli occhi dei Farisei, andò a riferire loro che autore della guarigione e del comando era stato Gesù. «Per questo perseguitavano i Giudei Gesù, perché faceva queste cose di sabbato». Non solo, dunque, perché aveva comandato di trasportare il giaciglio, ma anche per la guarigione operata; dunque i Farisei di Gerusalemme condividevano pienamente l’opinione dei loro colleghi della Galilea, già manifestata in occasione dell’uomo dalla mano rattrappita (§ 309). Ma Gesù, entrato in discussione, rispose loro: «Il Padre mio fino adesso opera, ed io opero». Per questo, dunque, «ancor più cercavano i Giudei d’ucciderlo, perché non solo abrogava il sabbato, ma diceva suo proprio Padre Iddio, facendo se stesso uguale a Dio». Quanto ad acume di mente, quei Giudei non lasciavano nulla a desiderare. Essi avevano ben seguito il ragionamento di Gesù, ch’era in sostanza questo: come Iddio creatore opera sempre, governando e conservando tutto il creato e non ammettendo alcun riposo sabbatico in questa sua operazione, così e per la stessa ragione io Gesù opero. Dunque - argomentavano quei Giudei - «Gesù fa se stesso uguale a Dio». Avevano afferrato perfettamente il ragionamento di Gesù; ma, poiché la sua conclusione rafforzata dal miracolo abbatteva uno dei capisaldi della casuistica farisaica, ragionamento e conclusione dovevano essere senz’altro rigettati.

• § 386. Seguì un lungo ragionamento di Gesù a difesa della sua missione; nella prima parte (Giov., 5, 19-30) egli illustra la sua eguaglianza col Padre e i còmpiti che ne derivano: di essere dispensatore di vita e giudice universale; nella seconda (ivi, 31-47) sono addotte le testimonianze che accreditano quella missione eppure sono misconosciute dai Giudei. Il ragionamento contiene quelle idee ed espressioni elevate che sono predilette dal IV Vangelo, e che scarsamente o quasi incidentalmente si riscontrano nei Sinottici. Dal punto di vista storico, come già rilevammo (§ 169), la differenza di tono si spiega agevolmente considerando la differenza degli interlocutori con cui Gesù discute: i montanari della Galilea, anche se Farisei, non raggiungevano certamente la finezza intellettuale dei dottori di Gerusalemme, con cui Gesù stava qui a discutere. Queste discussioni gerosolimitane, trascurate dai Sinottici, sono giustamente supplite dal solerte Giovanni. Il lungo ragionamento di Gesù (che dovrà essere letto direttamente nel testo) non convinse affatto i Giudei, i quali ricorsero ad argomenti d’altro genere: ossia decisero che quel fastidioso operatore di miracoli doveva esser soppresso. Cosicché, «dopo ciò Gesù s’aggirava nella Galilea: non voleva infatti aggirarsi nella Giudea, perché i Giudei cercavano d’ucciderlo» (Giovanni, 7, 1, ricollegantesi con 5, 47).

• La tradizione degli anziani. § 387. Trasferendosi in Galilea, Gesù si era sottratto alle insidie dei Farisei di Gerusalemme, ma costoro non abbandonarono però la partita; lassù, nella Galilea, essi non potevano certo spadroneggiare come a Gerusalemme, ma qualcosa potevano sempre fare: ad esempio, pedinare Gesù e raccogliere nuove accuse contro di lui. Difatti, già tornato Gesù in Galilea, si radunarono presso di lui i Farisei ed alcuni degli Scribi venuti da Gerusalemme (Marco, 7, 1). La tattica scelta da questi inviati fu quella di assillare l’irriducibile Rabbi con rilievi ed osservazioni sulla sua condotta, sia per umiliarlo in se stesso sia per screditarlo presso il popolo. Notarono subito che i discepoli del Rabbi non si lavavano le mani prima di mangiare: violazione gravissima della «tradizione degli anziani», gravissimo delitto che equivaleva - secondo la sentenza rabbinica (§ 72) - a «frequentare una meretrice» e attirava la punizione d’essere «sradicato dal mondo». Riscontrato il delitto, lo denunziarono subito al Rabbi, come al responsabile morale. Gesù accetta la battaglia, ma dal caso singolo s’innalza a considerazioni più ampie. Tutte quelle abluzioni di mani e di stoviglie sono prescritte dalla «tradizione degli anziani»: sta bene. Ma gli anziani non sono Dio, e la loro tradizione non è legge di Dio, la quale è infinitamente superiore; perciò in primo luogo bisogna badare alla legge di Dio, e non preferirle mai la tradizione di uomini. Ora, avveniva questo caso. La legge di Dio, ossia il decalogo, aveva prescritto di onorare il padre e la madre, e quindi di sovvenire ai loro bisogni fornendo aiuti materiali. I rabbini, dal canto loro, avevano stabilito la norma che, se un Israelita aveva deciso d’offrire un certo oggetto al Tempio, quell’offerta era inalienabile e l’oggetto non doveva finire che nel tesoro del Tempio: in tal caso bastava pronunziare la parola Qorbān (“offerta” sacra), e l’oggetto designato diventava proprietà sacra del Tempio in virtù di un voto irrevocabile. Spesso perciò accadeva che un figlio, maldisposto verso i suoi genitori, pronunziava Qorbān su tutto ciò ch’egli personalmente possedeva: cosicché i genitori, anche sul punto di morir di fame, non potevano toccar nulla di ciò che il figlio possedeva; costui, invece, continuava tranquillamente a godersi i suoi beni consacrati in voto (anche ciò permettevano i rabbini), fino a che li consegnava effettivamente al Tempio, oppure trovava una scappatoia per non consegnarli (anche qui le scappatoie rabbiniche non mancavano).

• § 388. Stando così le cose, Gesù rispose ai suoi pedinatori: «Bellamente (voi) dispregiate il comandamento di Dio per osservare la tradizione vostra! Mosè infatti disse: “Onora il padre tuo e la madre tua” e “Chi maledice padre o madre sia messo a morte”; voi invece affermate: “Se un uomo dice al padre o alla madre - (Sia) Qorbān ciò che ti potrebbe giovare - (deve mantenere)”; (cosicché) non gli lasciate più nulla da fare al padre o alla madre, abolendo la parola d’Iddio con la tradizione vostra che avete trasmessa» (Marco, 7, 9-13). Accennando poi ad altri casi non venuti in discussione aggiunse: «E cose simili di tal genere ne fate molte (§ 37). La conclusione fu tolta da un passo di Isaia (29, 13): Ipocriti! Bellamente profetò di voi Isaia dicendo: “Questo popolo con le labbra mi onora, ma il cuor loro lungi si tiene da me; e invano mi rendono culto insegnando insegnamenti (che sono) comandi d’uomini”» (Matteo, 15, 7-9). Farisei criticanti avevano avuto la loro parte, e sembra che non rispondessero. Gesù, però, si preoccupò delle turbe che avevano ascoltato, e che avevano la testa infarcita delle minute prescrizioni farisaiche riguardo a purità o impurità di cibi (§ 72); onde rivolgendosi ad esse continuò: «Uditemi tutti e capite! Non c’è nulla esteriormente all’uomo che entrando dentro di lui possa inquinarlo; bensì quelle cose che escono fuori dell’uomo sono quelle che inquinano l’uomo» (Marco, 7, 14-15). Come altre volte, Gesù aveva parlato anche qui da capovolgitore (§ § 318, 368); i Farisei se ne scandalizzarono: i discepoli stessi non capirono bene la forza del capovolgimento anti-farisaico, e quando furono soli con Gesù gliene domandarono la spiegazione. La spiegazione fu elementare: tutto ciò che entra nell’uomo, non raggiunge il cuore ch’è il vero santuario dell’uomo, bensì il ventre, donde i cibi ingenti sono emessi poco dopo; dal cuore dell’uomo invece escono fuori i pensieri malvagi, gli adulterii, le bestemmie e tutto il corteo di male azioni, e queste sole hanno la potenza d’inquinare l’uomo. Per Gesù, dunque, l’uomo era essenzialmente spirito e creatura morale; tutto il resto, in esso, era accessorio e subordinato a quella superiore essenza. [A proposito della parola Qorbān (“offerta” sacra), spiegata in precedenza. San Marco intende conservare la parola Qorbān (mancante nell’odierno testo greco di San Matteo, 15, 5), ma per i suoi lettori di Roma vi aggiunge a guisa di glossa: «cioè donativo»]. 

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Da «Vita di Gesù Cristo», Imprimatur 1940, Giuseppe Ricciotti (preghiamo l'Eterno riposo ...), 7a Edizione, 32° - 36° migliaio, Encomio solenne della Reale Accademia d’Italia, Rizzoli & C. Editori, Milano - Roma, 1941.